Il giorno dell'infamia

Cinque corazzate, una nave bersaglio e due cacciatorpediniere a fondo; altre tre corazzate e tre incrociatori pesantemente danneggiati. Vittoria strategica quasi completa. Non è il finale di una partita a battaglia navale, classico gioco da tavolo che, carta e penna alla mano, ha distratto generazioni di ragazzi ed adulti nelle ore noiose. E' invece la terribile conta dei danni in uno dei maggiori porti del Pacifico poche ore dopo l'inizio di un attacco a sorpresa che passerà alla storia.

Pearl Harbor si sveglia al suono della sirena dell'antiaerea, delle mitragliate e delle cannonate, del fischio assordante dei bombardieri in picchiata, delle esplosioni, del crepitio degli incendi. La domenica del 7 dicembre 1941 non è uguale alle precedenti in quello che finora era stato un sonnacchioso avamposto della Marina degli Stati Uniti in applicazione della teoria della "fleet in being" per scoraggiare puntate offensive giapponesi al centro dell'oceano. Distruzione, desolazione e morte sono presenti ovunque, dall'ampio bacino del porto all'isola Hickam da cui una colonna di fumo annuncia la distruzione anche della flotta aerea. Gli ospedali si riempiono a velocità sconcertante di moribondi, ustionati, mutilati ed alla fine di cadaveri d'ogni sorta mentre Husband Kimmel stringe in mano il telegramma giunto da Washington poco dopo l'inizio dell'attacco che gli intima di mettere le navi in stato d'allerta. A colpire è stata la Flotta Combinata dell'Impero giapponese con un'audace sortita a migliaia di miglia dalle proprie basi con un atto di guerra non dichiarato palesemente se non con un ritardo dovuto ad un errato calcolo del fuso orario.

Ad ideare l'incredibile piano d'attacco sono stati due ufficiali. Il più alto in grado si chiama Isoroku Yamamoto, è stato da poco promosso a capo della Flotta Combinata, ovvero il nerbo della Nihon Kaigun, la squadra che comprende le maggiori portaerei e le corazzate veloci classe "Kongo". Il secondo è un capitano di fregata di nome Minoru Genda, pioniere dell'aviazione navale del Sol Levante. Da un po' di tempo entrambi non si fanno illusioni sul naturale epilogo della politica di potenza giapponese in Estremo Oriente e sanno che l'imperialismo nipponico dovrà scontrarsi con le ultime due Potenze coloniali rimaste in zona, Regno Unito e Paesi Bassi, e con gli Stati Uniti d'America la cui sfera d'influenza si è estesa al Pacifico con la conquista delle Filippine al termine della guerra ispano-americana. Nel 1931 il Giappone ha iniziato la sua conquista in terraferma prendendosi la Manciuria, ribattezzata Manchukuo e trasformata in Stato-fantoccio con un sovrano di facciata, l'ultimo imperatore Pu Yi. Sei anni dopo, sfruttando abilmente una serie di scaramucce tra Nanchino, Pechino e Shangai, il Giappone ha sferrato la sua offensiva generale contro una Cina divisa dalle lotte tra signori della guerra, governo nazionalista e minoranza comunista. Doveva essere un conflitto piuttosto semplice, tra un esercito moderno e gruppi di armate tecnologicamente e tatticamente arretrate. Invece i cinesi hanno messo al bando le precedenti discordie per fare fronte comune contro l'invasore resistendo. A colpire invece al cuore gli interessi nipponici sono prima le sconfitte a nord contro l'Armata Rossa nel corso di un conflitto clandestino di confine che porta ad una pace armata e poi la decisione del governo americano di imporre sanzioni, a cominciare dall'embargo sul petrolio ed altri derivati.

Senza carburante la guerra in Cina rischia di arenarsi e l'industria giapponese potrebbe subire un contraccolpo mortale. In ambito militare i conti sono presto fatti: il Giappone ha riserve per non più di tre anni, quattro riducendo i ritmi produttivi e le necessità belliche. Le trattative politiche con Washington per riavere accesso al petrolio stallano, gli americani vogliono che Tokyo cessi ogni pretesa sulla Cina e ritiri le proprie truppe su posizioni difensive. Attorno all'imperatore Hirohito però il governo diventa sempre più intransigente ed i falchi prevalgono sulle colombe. Si vuole andare allo scontro, accettando le lusinghe che arrivano da Berlino e Roma. D'altronde con gli eserciti inglesi impegnati in Africa e la Royal Navy obbligata a presidiare le rotte nel Mediterraneo e nell'Atlantico, le guarnigioni alleate a sud sono deboli. Quanto agli americani, la loro Marina è numericamente pari a quella britannica ma Roosevelt non intende impegnarsi direttamente nel conflitto anche perché l'opinione pubblica interna è contraria.

Per avere successo in un conflitto il Giappone necessita di un vantaggio importante che gli garantisca almeno due anni di tempo per consolidare le conquiste iniziali. Come riuscirci? L'idea è di Genda. Anzi, in realtà sarebbe di un ammiraglio inglese, sir Andrew Browne Cunningham che nel novembre 1940 con un'azione notturna porta la Mediterranean Fleet ad un tiro di schioppo dalla base navale di Taranto e, con una sola portaerei e degli antiquati biplani Swordfish, affonda la "Cavour" e mette fuori gioco per mesi la "Littorio" e la "Duilio" dimezzando il potenziale della squadra da battaglia italiana. Se gli inglesi sono riusciti in una simile impresa, peraltro con forze ridotte, forse la Flotta Combinata potrebbe fare altrettanto, nonostante la distanza tra Hiroshima e Pearl Harbor sia ben maggiore di quella tra Alessandria d'Egitto e Taranto. Ad appoggiare l'idea di Genda c'è Yamamoto: alto ufficiale dal nome assai buffo (Isoroku in giapponese significa 56, impostogli perché il suo padre biologico lo ebbe appunto a 56 anni compiuti quando pensava di non avere più figli) Yamamoto è inviso a parte dell'aristocrazia del mare giapponese. I più vecchi non gli perdonano il fatto di essere stato adottato in età adulta da un potente ministro che gli ha trasmesso il cognome ed il titolo mentre la cosiddetta "cricca delle corazzate" rifiuta le sue idee tattiche basate su forze aeronavali.

Yamamoto e Genda preparano un piano con alcuni fidati collaboratori. L'obiettivo è Pearl Harbor dove la Flotta del Pacifico si è insediata al completo pronta ad intervenire nel teatro oceanico. L'idea è portarsi a nord dell'arcipelago delle Hawaii eludendo i controlli americani, lanciare tre ondate successive di aerei imbarcati - prima i siluranti, poi i bombardieri in picchiata - e forzare il porto con alcuni piccoli sommergibili. Il fine è la distruzione di depositi di rifornimento, silos di carburante, aeroporti, stabilimenti, aerei al suolo ma soprattutto delle navi, in special modo corazzate e portaerei. Se l'operazione si concluderà secondo previsioni, la US Navy impiegherà dai 18 ai 24 mesi per ritornare in un grado di efficienza tale da poter tentare operazioni offensive.

Mentre i diplomatici continuano a discutere di prospettive d'accordo, Yamamoto incarica l'ammiraglio Nagumo di curare la spedizione e l'addestramento. Per ovviare ai bassi fondali della base navale, i siluri giapponesi sono dotati di alettoni in legno che consentano loro un corretto funzionamento anche in tali condizioni. La Flotta Combinata, sfuggendo ai report degli addetti navali angloamericani, sparisce dalla circolazione e si rifugia nell'arcipelago delle Curili meridionali, al confine con l'Unione Sovietica. Qui piloti e navigatori ottengono le ultime istruzioni finché il 26 novembre 1941 arriva l'ordine di salpare in direzione Aleutine. Il 2 dicembre sulla "Akagi" arriva il messaggio di Yamamoto, dalla "Nagato" ancorata in baia a Tokyo l'alto ufficiale telegrafa a Nagumo una frase in codice. "Niitaka Yama noboru", scalate il monte Niikata: è il segnale di autorizzazione a procedere.

A Pearl Harbor nessuno sospetta quel che sta per succedere. Le giornate si dipanano nella consueta monotonia con un continuo andirivieni di routine. L'ammiraglio Kimmel è diviso tra le snervanti abitudini delle esercitazioni e le informazioni frammentarie e contraddittorie che giungono dal controspionaggio. Da Washington gli hanno consigliato di prevenire i sabotaggi, così raggruppa la maggior parte degli aerei sull'isola Hickam, al centro della rada, mentre le navi maggiori sono ancorate secondo uno schema chiamato "viale delle corazzate" - solo la sua ammiraglia, la "Pennsylvania", non ha ancora preso posto in formazione perché in bacino per alcuni interventi di miglioria. Quanto alle portaerei, la "Lexington" era partita pochi giorni prima per Seattle, la "Enterprise" deve scortare un convoglio per Guam e poi eseguire delle esercitazioni in mare e la "Yorktown" era stata già trasferita in Atlantico da tempo.

Poco prima dell'alba del 7 dicembre la forza d'attacco giapponese è in posizione. Dalle sei portaerei giapponesi parte la prima ondata: la Nihon Kaigun ha messo in mare il meglio di quanto possa disporre, con piloti perfettamente addestrati e ufficiali di provata esperienza. La massa di velivoli giunge sopra l'isola Oahu passando sulla testa di un impianto radar che ne annota la presenza ma gli addetti scambiano quella macchia di puntini sullo schermo per uno squadrone di bombardieri in arrivo dal continente: non sanno cosa sta per succedere né che il loro errore sarà il primo di una serie letale. Dopo che nella notte si erano già registrati alcuni allarmi, alle 6:45 un cacciatorpediniere viene allertato della possibile minaccia ed attacca con bombe di profondità. Sono le 6:53 quando il comandante del caccia invia il segnale d'allarme al comando annunciando di aver affondato un naviglio sconosciuto all'imboccatura del porto. Poco dopo la stessa nave attacca ed affonda un secondo sommergibile. L'ammiraglio Kimmel viene avvisato alle 7:40 mentre sta facendo colazione in giardino. Nove minuti più tardi il cielo si oscura.

Piove di tutto, sulla flotta all'ancora. I giapponesi sganciano i siluri che colpiscono le corazzate e la vecchia "Utah", convertita in nave bersaglio e dalla sagoma somigliante ad una portaerei. A essere colpite sono anche la "Nevada", la "California", la "Oklahoma", la "West Virginia", quelle più esposte lungo il cosiddetto viale. Alle altre pensano i bombardieri in picchiata. Alle 8:06 un Kate decollato dalla "Kaga" scende radente e sgancia un ordigno da quasi 8 quintali sulla "Arizona". La bomba perfora come burro i primi due ponti tra la seconda torre da 356mm e il torrione comando e penetra nella santabarbara; quando la spoletta completa il suo giro, la deflagrazione solleva e disintegra la prora della grossa nave che, avvolta dalle fiamme, diventa un vero inferno sull'acqua che brucia per due giorni e costa la vita a quasi tutto il suo equipaggio.

I giapponesi colpiscono senza pietà anche Hickam Field, la base dell'aeronautica dell'esercito. Bombardieri e intercettori al suolo sono un facile bersaglio e nulla si salva di quanto radunato sulle piste. Quando in cielo appare la seconda ondata, le sirene stanno ancora suonando e la rada è invasa dagli incendi. I bersagli prediletti sono sempre le navi maggiori ma anche quelle finora rimaste marginalmente coinvolte. Ed ovviamente piste secondarie, depositi, hangar. I giapponesi colpiscono duro, quasi indisturbati. Alle 11 la "Akagi" invia un ricognitore su Pearl Harbor, il rapporto è immediatamente steso: non c'è più nulla di integro o funzionante, l'intera rada è annerita dai fumi. Mentre la polizia irrompe nel locale consolato giapponese per verificare solo che il personale aveva già distrutto documenti e decodificatori, Nagumo rinuncia alla terza ondata: "Troppo rischioso", dice. D'altronde le portaerei non ci sono ed è inutile, secondo il vecchio ufficiale, rischiare gli aerei e gli uomini per distruggere i cantieri navali e i depositi di carburante rimasti integri. Non sa che sta commettendo un grave errore di calcolo.

La reazione americana è tardiva e debole. A parte i sommergibili distrutti e qualche aereo abbattuto, Pearl Harbor non può difendersi. Informato del disastro, il burrascoso William "Bull" Halsey lancia gli aerei della "Enterprise" alla ricerca della flotta giapponese ma i suoi uomini rientrano a mani vuote perché l'indicazione sulla presenza a sud di Oahu è errata. Intanto si contano morti e danni: i primi sono oltre duemila, cinque corazzate sono colate a picco, l'unica che possa ancora tenere il mare è la "Pennsylvania" che ha rimediato solo danni marginali ma che necessita ugualmente di riparazioni. La Flotta del Pacifico non c'è più. A Washington il presidente Roosevelt incassa il colpo e parla alla nazione alla radio. Il 7 dicembre 1941 diventa "il giorno dell'infamia", puntando sul fatto che la dichiarazione di guerra viene consegnata dal Giappone un'ora dopo l'inizio del bombardamento a causa di un errato calcolo del fuso orario. L'opinione pubblica cambia immediatamente orientamento, ci si vuole vendicare di quel che è successo. Kimmel paga il conto, viene sollevato dal comando e la sua carriera finisce ingloriosamente. Al suo posto c'è Chester Nimitz che vara una nuova tattica conservativa in attesa di riavere abbastanza navi per poter fronteggiare i giapponesi ad armi pari. Mentre la flotta nipponica colpisce a morte anche gli inglesi colando a picco la moderna "Prince of Wales" ed il vecchio "Repulse", tra i marinai statunitensi si fa strada la voglia di vendetta. Nessuna delle navi che ha colpito Pearl Harbor dovrà navigare più. Impiegheranno quasi quattro anni ma il loro desiderio sarà alfine esaudito. 

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