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Visualizzazione dei post da ottobre, 2021

Una nave (e una classe) sfortunata

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Le luci delle fotoelettriche ad illuminare l'acqua scura come la pece , ordini contraddittori che giungono da più parti, il tiro disperato dei rimorchiatori, una folta folla di marinai che assiste a quello che verrà definito come il più grave disastro della Voenno-Morskoj Flot in tempo di pace. Prima che l'alba del 29 ottobre 1955 sorga su Sebastopoli una grande nave ha iniziato ad inabissarsi nel porto chiudendo per sempre un'epoca e archiviando la storia di una classe, la "Conte di Cavour", davvero sfortunata. La nave oggetto dell'affondamento si chiama ufficialmente "Novorossijsk" ma era stata varata oltre quarant'anni prima col nome di "Giulio Cesare" nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente. Seconda unità della sua classe dopo la "Cavour", aveva prestato servizio nella Regia Marina per più di trent'anni, partecipando ai due conflitti mondiali e venendo più volte rimodernata, con un importante intervento di radicale r

La partita a scacchi del gentleman

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"Don't wait for the translation!" : il tono solitamente pacato e gentile di Adlai Stevenson II , ambasciatore della Casa Bianca all'ONU, risuona acuto e potente nell'aula del Palazzo di Vetro che racchiude le riunioni del Consiglio di Sicurezza, nel pomeriggio del 25 ottobre 1962. "Non aspetti la traduzione!" , ribadisce Stevenson che da quasi mezz'ora sta incalzando il suo omologo sovietico Valerian Zorin : è una tecnica d'attacco, un metodo per mettere all'angolo il delegato di Mosca che capisce bene l'inglese, pur non parlandolo fluentemente, e che porta come molti nella sala l'auricolare connesso alla sala interpreti delle Nazioni Unite. Stevenson ha avuto istruzioni chiare per la gestione di un affare delicatissimo, un confronto senza esclusione di colpi davanti al consesso del mondo intero. La partita a scacchi che si sta giocando è mortale e lo sanno bene tanto Zorin quanto i membri dell'Amministrazione Kennedy che osservan

Kamikaze in azione

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In una città martoriata, vittima della violenza interconfessionale, abituata agli scontri quotidiani delle milizie lungo quel che rimane delle proprie strade, due esplosioni quasi simultanee non dovrebbero far notizia. Anzi, è facile ascoltare più volte nel corso di una singola giornata numerose deflagrazioni provenire da più parti: dallo Chouf i drusi sparano colpi di mortaio contro la Corniche ed i palazzi del governo in cui i ministri sono ormai asserragliati come nei bunker; da est risponde l'artiglieria maronita, che batte anche i settori occidentali in cui Amal e sunniti si guardano abitualmente con sospetto. A volte anche dal mare, dove una flotta straniera staziona da tempo, pare arrivare qualche colpo di cannone o qualche missile diretto verso le montagne. Per Beirut, abituarsi al frastuono delle esplosioni è stato semplice, in otto anni di sanguinosa guerra civile. Ma domenica 23 ottobre 1983 c'è qualcosa di diverso, in quei due scoppi potentissimi che avvengono a br

Fuga per la vita

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Casette ad uno o due pian colorate, prati ben curati, una ferrovia in disuso. Uno scenario tipico della campagna polacca, dove l'enorme pianura dell'Europa orientale sembra perdersi nell'immensità degli spazi punteggiati da villaggi agricoli e qualche opificio. I binari ferroviari si scorgono appena, arrugginiti nel tempo ed ormai sovrastati dalla vegetazione, erbacce cresciute in oltre vent'anni di abbandono: l'ultimo convoglio è passato nel 1999, prima della soppressione della linea. Il cartello della vecchia stazione è ancora in piedi, un segnale a fondo bianco con grosse lettere squadrate nere, ed annuncia ancora oggi un sito il cui nome è stato per un diciannove lunghissimi mesi sinonimo di terrore, sofferenza, crudeltà, morte. Quel nome è Sobibor . Dove oggi sorge un anonimo villaggio polacco, circondato da foreste e da scavi archeologici, un tempo vi era uno dei più temuti campi di sterminio nazisti. Il lager di Sobibor, costruito nel tardo inverno del 1942 e

Un sasso in un bicchiere

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“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi” . Con poche frasi Dino Buzzati riassunse dalle colonne del “Corsera” dell’ 11 ottobre 1963 un fatto di cronaca sconvolgente, una mostruosità che aveva lasciato attonito un Paese interrompendo per un attimo il sogno del boom economico, della rincorsa al benessere, della crescita post bellica. Perché non si poteva morire solo di malattia o per incidenti stradali, nell’Italia del 1963. Si poteva morire, in maniera assurda, anche per un disastro annunciato. La tragedia del Vajont entrò nell’immaginario collettivo come simbolo di un Paese che cresceva forse troppo in fretta, sottovalutando i pericoli derivanti da un improprio sfruttamento delle risorse naturali. La diga, quella meravigliosa diga indistruttibile che doveva portare ben