Fuga per la vita

Casette ad uno o due pian colorate, prati ben curati, una ferrovia in disuso. Uno scenario tipico della campagna polacca, dove l'enorme pianura dell'Europa orientale sembra perdersi nell'immensità degli spazi punteggiati da villaggi agricoli e qualche opificio. I binari ferroviari si scorgono appena, arrugginiti nel tempo ed ormai sovrastati dalla vegetazione, erbacce cresciute in oltre vent'anni di abbandono: l'ultimo convoglio è passato nel 1999, prima della soppressione della linea. Il cartello della vecchia stazione è ancora in piedi, un segnale a fondo bianco con grosse lettere squadrate nere, ed annuncia ancora oggi un sito il cui nome è stato per un diciannove lunghissimi mesi sinonimo di terrore, sofferenza, crudeltà, morte. Quel nome è Sobibor.

Dove oggi sorge un anonimo villaggio polacco, circondato da foreste e da scavi archeologici, un tempo vi era uno dei più temuti campi di sterminio nazisti. Il lager di Sobibor, costruito nel tardo inverno del 1942 ed inquadrato nell'Operazione Reinhard, è passato alla storia non solo come emblema della malvagità umana ma anche come simbolo del riscatto di un popolo soggiogato, emarginato, sfruttato e massacrato nel nome di una folle idea. Sobibor ha rappresentato un punto di svolta nella tragedia dell'Olocausto spaventando per la prima volta i carnefici all'interno di quella macchina omicida da loro stessi ideata e condotta col solo scopo di cancellare dal pianeta un'intera etnia. Il 14 ottobre 1943 sembra un giorno qualunque nella vita di Sobibor. Il campo funziona a pieno regime da tempo: alla stazione arrivano con puntualità i convogli dai ghetti o da altri campi, carri bestiame carichi di ebrei, russi, prigionieri di guerra, rom; ai viaggiatori viene raccontata la prima di una lunga sequela di bugie, guardie ed ufficiali delle SS spiegano che Sobibor è solo un campo di transito, che dovranno fermarsi giusto uno o due giorni prima di proseguire verso il reinsediamento ad Est, che prima di poter riceve un alloggio temporaneo occorre una procedura di disinfestazione dai pidocchi con rasatura dello scalpo e doccia. Poche vittime colgono la falsità di quelle parole pronunciate spesso col sorriso, col sottofondo musicale di una orchestrina di prigionieri del campo che suona in un angolo quasi a rendere gioiosa la farsa. Nel giro di qualche ora i passeggeri del convoglio sono denudati, privati del bagaglio, rasati a zero e spinti verso le camere a gas. Sobibor non dispone di un forno crematorio quindi i corpi delle vittime invece che essere bruciati sono sepolti in enormi fosse fuori dal campo.

Chi invece è rinchiuso vive l'esperienza della prigionia come un vero e proprio inferno. Il lager è circondato da paludi e da campi minati disposti per evitare tentativi di fuga nella foresta mentre le torri di guardia sono dotate di mitragliatrici pesanti. Il varco d'accesso e d'uscita è unico, grande, sempre sorvegliato e separa la zona di detenzione ed i laboratori interni dalle residenze delle guardie e degli ufficiali, dalla stazione ferroviaria e dall'area di sterminio vero e proprio. A Sobibor si può morire per una fucilazione improvvisa, per frustate, per impiccagione, tutte punizioni distribuite dal comandante o dai suoi sottoposti a carico di chi non esegue con velocità e puntualità gli ordini. La speranza di sopravvivenza è legata a poche professioni: i dentisti ed i gioiellieri sono risparmiati perché utili ad estrarre le protesi dentarie dei morti ed a catalogare i tesori rubati agli ebrei; sarti e calzolai devono adattare i vestiti delle persone giunte con i treni della morte per il riutilizzo civile o militare; i carpentieri hanno una piccola officina in cui costruire elementi prefabbricati ricavati col legno tagliato nelle vicinanze. Chi non è indispensabile a queste attività ha una condanna a morte già scritta sulla testa.

Sobibor è una sorta di campo-modello per le SS, l'efficienza del comandante Franz Stangl è lodata da Himmler in persona. Stangl ottiene una promozione e la nomina a responsabile di un altro campo di sterminio, Treblinka, lasciando il comando di Sobibor ad un amico di vecchia data, Franz Reichleitner. Austriaco d'origine con un passato nella polizia criminale, Reichleitner si è formato come sterminatore nell'ambito dell'Aktion T4, il programma di eutanasia che ha provveduto all'uccisione indiscriminata di disabili fisici e mentali. E' proprio nel corso del programma T4 che Reichleitner conosce Stangl di cui diviene amico intimo tanto da sposare una conoscente della moglie del collega. Stangl si fida delle sue capacità e lo vuole come suo secondo a Sobibor per poi lasciargli dopo sei mesi l'incombenza di dirigere il campo. Nella memoria dei prigionieri Reichleitner è un uomo elegante, maniaco della puntualità, preciso sino al minimo dettaglio ma privo di pietà: un giorno all'arrivo di un convoglio ferroviario, un vecchio ebreo viene insultato dall'Oberscharführer Karl Frenzel, uno dei sottufficiali in servizio, e reagisce con un ceffone in pieno volto; Reichleitner mantenendosi freddo e distaccato impedisce con poche calme parole al sottoposto di reagire, aiuta l'anziano a muoversi, lo porta sulla piazzola antistante i binari e gli spara a bruciapelo in testa davanti a tutti i presenti, zittendo per un istante anche l'orchestrina.

A Sobibor dunque si muore. Chi non regge al clima di terrore si suicida buttandosi contro il recinto elettrificato o saltando in aria sulle mine in tentativi infruttuosi di evasione. Scappare sembra impossibile per chiunque ma non per un prigioniero molto speciale. Si chiama Aleksandr Aronovič Pečerskij ma per tutti è Sasha, è un prigioniero di guerra, già capitano dell'Armata Rossa, russo figlio di un avvocato ebreo; catturato nell'ottobre 1941, ha già tentato la fuga da altri campi ed alla fine è stato trasferito a Sobibor come schiavo addetto alla carpenteria. Sasha Pečerskij arriva nel lager il 22 settembre 1943 e dopo pochi giorni raccoglie le confidenze di una ragazza ucraina, anche lei inizialmente prigioniera e poi diventata una guardia ausiliare delle SS: è lei a riferire all'ex ufficiale russo dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, del tentativo di rivolta di Treblinka e del sospetto crescente sul futuro di Sobibor. Corre voce che il campo abbia i giorni contati, che come già avvenuto per Belzec le SS vogliano liquidarlo massacrando tutti i prigionieri per poi far sparire ogni traccia. Non c'è molto tempo, se si vuole sopravvivere occorre agire. Pečerskij ne parla con altri detenuti, specialmente con Leon Feldhendler che sta da tempo pensando ad un piano di fuga. Ormai è chiaro che l'unica vera via di fuga sia il cancello principale ma per oltrepassarlo è necessaria un'azione di forza, a mano armata, per evitare che le guardie aprano il fuoco uccidendo chiunque tenti di forzare l'uscita. Come procurarsi le armi necessarie? Pečerskij ha un'idea, attirare uno alla volta gli assassini in divisa da SS nei laboratori e pugnalarli, bastonarli, garrotarli a morte per prendere le rivoltelle dalle loro fondine e con quelle assaltare poi l'arsenale del campo. 

Il 14 ottobre 1943, un giorno apparentemente come tutti gli altri, il piano di Pečerskij viene avviato. La prima vittima è l'Untersturmführer Johann Niemann, vicecomandante di Sobibor che sta sostituendo Reichleitner, a casa in licenza. Niemann è un uomo vanitoso, gli piacciono gli abiti eleganti ed è proprio puntando su questa debolezza che i prigionieri riescono a sopraffarlo: attirato dal sarto del campo con la scusa di provare un nuovo cappotto impermeabile in pelle, l'ufficiale è ucciso da due carpentieri che gli balzano alle spalle colpendolo al cranio con le accette. Nascosto il cadavere, altre vittime cadono nella trappola del cappotto del sarto o nel laboratorio dei gioiellieri oppure nella bottega del barbiere all'interno del complesso delle abitazioni della truppa. Ottenute le prime armi leggere, entra in scena un altro prigioniero, Szlomo Szmajzner, che in qualità di calderaio ha libero accesso alla zona più sensibile del campo, quella vicina all'armeria: entrato con la scusa di dover riparare il guasto ad una stufa, Szmajzner pugnala a morte l'unica guardia presente ed inizia a radunare i fucili nascondendoli in delle coperte, affidate poi a dei ragazzini per essere trasportate tra le baracche dei prigionieri.

Nel tardo pomeriggio, al momento dell'appello serale, è tutto pronto per il tentativo di evasione. L'atmosfera è elettrica, lo stesso Pečerskij si rende conto che il rischio è sempre maggiore: finora nessuno incredibilmente si è reso conto delle uccisioni – una dozzina in totale tra ufficiali, sottufficiali e soldati – però le probabilità che il piano venga scoperto aumentano sempre più. Mentre si allineano sulla piazza uno dei prigionieri decide di rompere gli indugi e passa all'azione: “Non lo sai che la guerra è finita?” dice ad una guardia che lo spinge con insistenza, dopodiché estrae una delle pistole rubate e gli spara a bruciapelo. Da quel momento la situazione precipita e il caos s'impadronisce di Sobibor. Con i fucili sottratti dall'arsenale Szmajzner spara verso le torrette per uccidere i mitraglieri di guardia, alcuni prigionieri si lanciano verso l'uscita spalancando a forza il cancello; altri ancora fuggono in direzione del Vorlager, gli alloggiamenti delle SS, tentando di scavalcare il recinto non elettrificato e piombando sul campo minato. E' un vero massacro, tra esplosioni di ordigni sepolti e spari sia degli evasi che di alcune SS che, guidate dal sadico Oberscharführer Karl Frenzel scampato miracolosamente agli agguati, falciano uomini, donne e ragazzi che tentano la fuga.

Dei 600 prigionieri di Sobibor, solo la metà riesce a scappare mentre gli altri muoiono sulle mine o nel caos della corsa verso la libertà. Nelle ore e nei giorni seguenti le SS lanciano una poderosa caccia all'uomo uccidendo 60 fuggiaschi e catturandone altri 175, tutti passati per le armi poco dopo essere stati riportati nel campo. Pečerskij si salva, raccolto assieme ad altri da un'unità partigiana passa il resto della guerra a combattere alla macchia finché una ferita ad una gamba non lo obbliga a ricorrere alle cure di un ospedale da campo sovietico. A Norimberga sarà uno dei testimoni chiave dell'accusa contro i massacratori SS.

L'orribile storia di Sobibor finisce in quell'ottobre del 1943. Himmler, scandalizzato per la rivolta e la fuga, ordina la liquidazione completa del campo le cui strutture sono demolite col tritolo e con le ruspe, preservando solo la stazione ferroviaria ed una delle casupole del Vorlager in cui si stabilisce un ex guardiano con la propria famiglia: il suo compito è dissimulare, fingere di essere un contadino per negare a chiunque (specie all'Armata Rossa in avanzamento da Est) che lì vi sia mai stato un campo di sterminio. Frenzel, spacciatosi per un reduce della Russia, sarà internato a fine guerra dagli americani; liberato, sarà riconosciuto come il sadico boia di Sobibor solo nel 1962, processato nel 1965 e condannato all'ergastolo – la pena verrà interrotta per motivi di salute a metà anni '80. Franz Reichtleiner morirà invece a Fiume nel 1944: trasferito come ufficiale della Gestapo nel Quarnaro, sarà catturato dai partigiani e fucilato come criminale di guerra.

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