Kamikaze in azione

In una città martoriata, vittima della violenza interconfessionale, abituata agli scontri quotidiani delle milizie lungo quel che rimane delle proprie strade, due esplosioni quasi simultanee non dovrebbero far notizia. Anzi, è facile ascoltare più volte nel corso di una singola giornata numerose deflagrazioni provenire da più parti: dallo Chouf i drusi sparano colpi di mortaio contro la Corniche ed i palazzi del governo in cui i ministri sono ormai asserragliati come nei bunker; da est risponde l'artiglieria maronita, che batte anche i settori occidentali in cui Amal e sunniti si guardano abitualmente con sospetto. A volte anche dal mare, dove una flotta straniera staziona da tempo, pare arrivare qualche colpo di cannone o qualche missile diretto verso le montagne. Per Beirut, abituarsi al frastuono delle esplosioni è stato semplice, in otto anni di sanguinosa guerra civile.

Ma domenica 23 ottobre 1983 c'è qualcosa di diverso, in quei due scoppi potentissimi che avvengono a breve distanza, di tempo e di spazio. Ce n'è uno, fortissimo, che proviene dall'aeroporto internazionale chiuso da tempo immemore ed adibito a base delle forze da sbarco statunitensi; e ce n'è un altro, più sordo, dal sobborgo di Ramlet al Baida, sede dei paracadutisti francesi, che segue di una decina di minuti. Le colonne di fumo che si alzano non lasciano spazio alle illusioni, qualunque libanese ha capito cos'è avvenuto. L'impensabile, l'inimmaginabile: l'attacco contemporaneo ai due maggiori contingenti della forza internazionale di pace denominata MNF attraverso una nuova tecnica, quella dei camion-bomba guidati da attentatori suicidi.

La MNF era giunta a Beirut a fine agosto del 1982 dopo che l'Operazione "Pace in Galilea" delle IDF aveva messo alle strette l'OLP minacciando l'esistenza stessa dell'entità palestinese. Con i suoi uomini accerchiati e quasi senza più viveri, acqua e munizioni, Yasser Arafat aveva optato per il negoziato d'emergenza chiedendo un corridoio internazionale per l'evacuazione d'emergenza dei suoi combattenti. E proprio per garantire una fuga senza agguati i marines americani, i parà francesi ed i bersaglieri italiani erano giunti in soccorso, posizionandosi al porto e sovrintendendo all'imbarco dei guerriglieri, ovviamente disarmati. L'uccisione in un attentato dinamitardo di Bashir Gemayel, presidente eletto ma non ancora insediato saltato in aria esattamente 24 ore dopo la partenza del contingente straniero, aveva aperto un'altra stagione di caos contraddistinta dall'assalto portato dai falangisti maroniti ai campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, rimasti indifesi dopo la partenza di Arafat: il massacro compiuto alla luce dei bengala sparati dai semoventi israeliani posizionati attorno alle baraccopoli aveva indignato il mondo e costretto la MNF a ritornare in forze a Beirut per provare a ridare alla città una parvenza di ordine.

La missione, nata male, era proseguita peggio. In poche settimane il contingente capì che lo Stato libanese era ormai al collasso, troppo diviso al proprio interno per pensare di poter superare le nuove prove dell'ulteriore fase del conflitto. A complicare il quadro locale erano sorte due organizzazioni che avevano occupato lo spazio lasciato libero dai palestinesi garantendo una ulteriore escalation di violenza. A farne le spese era stata l'ambasciata degli Stati Uniti, colpita il 18 aprile 1983 da un attentato dinamitardo organizzato dalla Jihad Islamica con la tecnica del furgone kamikaze. Un veicolo comprato in Texas e spedito via mare era stato imbottito di tritolo e condotto da un autista suicida al di sotto del porticato dell'edificio a sei piani a ferro di cavallo che ospitava la delegazione diplomatica americana e gli uffici della CIA. L'esplosione aveva divelto la facciata centrale del palazzo, causando la morte di funzionari, militari, personale civile statunitense e libanese ed anche di una giornalista. L'attacco era stato rivendicato dal gruppo terrorista, braccio armato di un nuovo partito politico che da poco tempo si era affacciato sulla scena libanese ma che prometteva già di diventare un attore principale della tragica vicenda del Paese dei Cedri.

Il nome di Hezbollah era emerso per la prima volta nel giugno del 1982 come una fazione sciita direttamente appoggiata e finanziata dai pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione in Iran. La numerosa comunità sciita libanese - terza per consistenza nazionale dietro maroniti e sunniti - fino a quel momento si era quasi totalmente identificata nel movimento Amal di Nabih Berri che aveva prima stretto una difficile alleanza con maroniti e israeliani in chiave anti-siriana, salvo poi divenire totalmente indipendente. Dall'estate 1982 Amal aveva visto assottigliarsi le fila dei propri sostenitori e combattenti mentre Hezbollah cresceva a dismisura grazie anche all'aiuto iraniano. Le prime azioni del nuovo gruppo, operate sotto la sigla della Organizzazione della Jihad Islamica, erano state rivolte contro i cittadini stranieri presenti in Libano: non militari ma personale civile, membri della stampa, diplomatici, uomini d'affari che erano stati rapiti e per il cui rilascio si erano poste condizioni sempre più pesanti, compreso il ritiro totale dei contingenti militari esteri. L'attentato del 18 aprile 1983 aveva segnato il punto di svolta, tanto per la nuova tecnica sperimentata quanto per l'improvviso innalzamento del livello di scontro. E se l'Amministrazione Reagan aveva deciso un aumento delle spese militari per sostenere la missione in Libano, diversi politici del GOP avevano iniziato a richiedere un ritiro rapido delle truppe temendo un secondo Vietnam. Nulla però faceva presagire un secondo attacco dinamitardo, ancor meno un duplice assalto simultaneo, per quanto il livello di allerta nelle basi libanesi e nelle ambasciate era rimasto al massimo livello.

Domenica 23 ottobre 1983 l'atmosfera è inizialmente serena a Beirut. All'alba i mullah hanno chiamato i fedeli alla preghiera, le campane delle chiese maronite e greco-ortodosse invece sono ancora in silenzio in attesa della messa mattutina. Alle 6:30 un camion cisterna Mercedes-Benz giallo arriva all'aeroporto: inizialmente nessuno vi fa caso, la domenica è il giorno del rifornimento d'acqua per la base dei Marines che da un anno ormai si sono acquartierati in una delle palazzine dello scalo. Il checkpoint dell'esercito libanese nemmeno chiede i documenti all'autista, che risulterà essere un iraniano di nome Ismail Ascari e che è libero di proseguire. Il mezzo pesante prosegue verso il parcheggio dell'aerostazione, vi gira intorno un paio di volte ma ancora nessuno si è insospettito. Ad un tratto, il camion si ferma, l'autista ingrana la prima marcia e parte a razzo verso la base dei Marines ma le sentinelle nemmeno sanno come reagire, a causa di regole d'ingaggio troppo stringenti. In pochi secondi il veicolo piomba dentro l'edificio obiettivo ed il suo conducente attiva il detonatore: dalla cisterna, dove sono stati stipati 9500 chili di tritolo e delle bombole di propano, si propaga una vera e propria palla di fuoco che avvolge la struttura sbriciolando tutti i quattro piani da cui è composta e provocando la morte di 241 militari. Mentre Ascari sta avviando la sua manovra suicida, un secondo camion si dirige verso un altro palazzo, il Drakkar, a sei chilometri di distanza dall'aeroporto e situato a Ramlet al Baida, quartiere di Beirut Ovest, zona musulmana: lì si sono stabiliti i paracadutisti francesi del 1° Cacciatori. Se nella base statunitense l'effetto sorpresa non ha sortito reazioni da parte dei difensori, al Drakkar i transalpini capiscono al volo che quel camion inatteso non è giunto con doni benevoli e sparano con le armi leggere in dotazione contro il veicolo. Il suo autista muore sul colpo e nemmeno riesce ad entrare nell'edificio obiettivo ma le guardie non fanno in tempo ad aprire la portiera della cabina del camion che una esplosione investe tanto loro quanto la struttura adiacente: qualcuno ha osservato da distanza la scena e ha premuto il pulsante per una seconda esplosione, ugualmente distruttiva che lascia sul terreno i corpi maciullati di 58 parà e che demolisce la caserma del reparto francese.

I soccorsi scattano immediati. Il futuro premier Rafiq Hariri, all'epoca imprenditore edile, mette a disposizione le sue autogru per sollevare le lastre di cemento tra le macerie mentre gli ospedali da campo, specie quello italiano, sono affollati da una moltitudine di feriti - per ragioni politiche sia i francesi che gli americani rifiutano l'intervento israeliano. La rivendicazione degli attacchi arriva nel breve volgere di qualche ora, smentendo in qualche modo anche i portavoce di Teheran che inizialmente respingono sdegnati le accuse che piovono loro addosso: nessun dubbio, c'è ancora la mano degli sciiti oltranzisti dietro il doppio camion-bomba. La reazione franco-statunitense passa per delle missioni di bombardamento aereo che colpiscono i campi d'addestramento di Hezbollah lungo la valle della Bekaa, senza tuttavia causare grandi danni. Le due deflagrazioni segnano comunque anche la fine della missione multinazionale che nei mesi successivi, mentre l'esercito libanese perde intere brigate che si ammutinano e passano chi con i drusi e chi con i sunniti, pianifica il rientro. Sul posto resteranno piccoli presidi e qualche diplomatico per ricucire una ferita nazionale in realtà da tempo infetta e che verrà curata solo con una soluzione drastica, gli Accordi di Ta'if, che ridisegneranno per sempre la geografia politica del Paese dei Cedri.

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