La partita a scacchi del gentleman

"Don't wait for the translation!": il tono solitamente pacato e gentile di Adlai Stevenson II, ambasciatore della Casa Bianca all'ONU, risuona acuto e potente nell'aula del Palazzo di Vetro che racchiude le riunioni del Consiglio di Sicurezza, nel pomeriggio del 25 ottobre 1962. "Non aspetti la traduzione!", ribadisce Stevenson che da quasi mezz'ora sta incalzando il suo omologo sovietico Valerian Zorin: è una tecnica d'attacco, un metodo per mettere all'angolo il delegato di Mosca che capisce bene l'inglese, pur non parlandolo fluentemente, e che porta come molti nella sala l'auricolare connesso alla sala interpreti delle Nazioni Unite. Stevenson ha avuto istruzioni chiare per la gestione di un affare delicatissimo, un confronto senza esclusione di colpi davanti al consesso del mondo intero. La partita a scacchi che si sta giocando è mortale e lo sanno bene tanto Zorin quanto i membri dell'Amministrazione Kennedy che osservano la scena in diretta televisiva da Pennsylvania Avenue.

Quella che passerà alla storia come la crisi dei missili di Cuba si era aperta nove giorni prima quando i rapporti fotografici degli aerei-spia U-2 in volo sull'isola caraibica avevano mostrato i lavori di approntamento per la realizzazione di rampe di lancio missilistiche destinate a ICBNM, cioè missili balistici intercontinentali a testata nucleare. Ad un centinaio di miglia da Miami, gli Stati Uniti si ritrovavano un potenziale bellico ostile capace di colpire in cinque minuti tutto il territorio metropolitano costituendo dunque una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale. Nessun mistero era ovviamente sorto in merito alla provenienza di quelle armi, fornite assieme a diversa altra assistenza militare da quel Blocco Orientale cui Fidel Castro si era rivolto dopo che tre anni prima Foster Dulles gli aveva voltato le spalle ritenendolo un elemento inaffidabile per la politica statunitense.

L'abbraccio pericoloso tra la Cuba rivoluzionaria e l'URSS era stata la risposta ad una politica di blocchi contrapposti che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, aveva spaccato il mondo in due - con l'eccezione del movimento dei non allineati, ancora in fase di definizione all'epoca della guerriglia castrista. L'Amministrazione Kennedy aveva ereditato il frutto avvelenato dal vecchio Ike che aveva consegnato la Casa Bianca al primo presidente cattolico degli USA assieme a più di un grattacapo da definire. Cuba rappresentava certamente il problema maggiore, vista la sua collocazione geografica che la rendeva una sorta di nemico sull'uscio per l'America anticomunista, e Kennedy aveva inizialmente appoggiato le rivendicazioni degli esuli radunati ed addestrati militarmente dalla CIA. Lo sbarco della Baia dei Porci doveva essere il primo passo per una invasione non ufficiale dell'isola ma quando i paramilitari anticastristi si erano trovati in difficoltà sul terreno, inchiodati sulle spiagge dalla reazione dell'esercito cubano, Kennedy in persona aveva rifiutato l'appoggio aereo per non scatenare la reazione sovietica.

Cuba era diventata il contraltare di Berlino Ovest. In un mondo bipolare, se l'enclave tedesca era costantemente sotto teorico scacco da parte dell'URSS che già poco dopo la fine della guerra aveva forzato la mano con un blocco terrestre, il regime castrista era politicamente isolato in un emisfero interamente controllato da Washington. La sopravvivenza dei berlinesi occidentali e dei cubani castristi era demandata al supporto delle due superpotenze oltre che ad un complicato incastro diplomatico. Ma l'episodio della Baia dei Porci e la presenza dei missili Jupiter in Turchia ed in Italia avevano indotto Mosca ad agire diversamente, accettando quella che veniva vista come una vera e propria sfida al precario equilibrio costituito: per questo motivo il praesidium del PCUS aveva accettato di posizionare a Cuba il nuovo sistema missilistico R-16, conosciuto in ambito NATO come SS-7 Saddler, capace di bersagliare obiettivi militari o civili con una singola testata da tre megatoni. La scoperta delle installazioni primarie di questi missili aveva destato scandalo e preoccupazione nei corridoi della Casa Bianca, con lo staff presidenziale preoccupato al contempo sia di trovare una soluzione praticabile che di evitare di spargere il panico nella popolazione.

Se il generale dell'USAF Curtis LeMay aveva più volte insistito per una soluzione militare, con bombardamento delle installazioni e successiva invasione di Cuba confidando in una mancata risposta militare dei sovietici, ben più pragmatico si era dimostrato Robert McNamara, Segretario alla Difesa. Lo spettro di una nuova crisi a Berlino o addirittura di una guerra convenzionale o nucleare con l'URSS aveva agitato i sonni degli strateghi politici e militari alla perenne ricerca di un compromesso che salvasse capra e cavoli. La soluzione era stata identificata in una linea di quarantena attorno all'isola, un espediente anche verbale per evitare che un blocco navale vero e proprio potesse risultare come un atto di guerra non dichiarata: la conferenza dell'Associazione degli Stati Americani, organismo disertato da Cuba dalla fuga di Fulgencio Batista in poi, aveva garantito il pieno appoggio agli USA con successiva approvazione della misura annunciata in diretta televisiva da JFK la sera del 22 ottobre. Mentre la US Navy si preparava a stringere il cerchio nei Caraibi per bloccare ed ispezionare ogni nave che potesse trasportare armi nucleari, i voli su Cuba continuavano anche con missioni fotografiche a bassa quota al fine di ottenere quanti più dettagli possibile sul posizionamento dei missili e delle strutture di supporto, antiaerea compresa - spacciate come necessità in vista di una possibile invasione, tali iniziative invece servivano sul piano politico a garantire materiale con cui inchiodare l'URSS alle proprie responsabilità.

La partita più delicata si sarebbe giocata all'ONU, un ambiente piuttosto neutrale nonostante all'epoca il Consiglio di Sicurezza vedesse il fronte atlantico in vantaggio 4-1 nei seggi permanenti. Più che i freddi numeri, contava la capacità anche emotiva di comunicare al mondo il giusto messaggio, cioè il grosso rischio corso dall'URSS nel voler armare un proprio satellite di testate nucleari tattiche e strategiche con fini aggressivi. L'incarico spettava a Adlai Stevenson II, un avvocato nonché politico di lungo corso del Partito Democratico. Uomo assai garbato e incline al dialogo, Stevenson non godeva di buona reputazione nell'ambiente degli squali di Washington: aveva perso per due volte consecutive la corsa alla Casa Bianca, la seconda da vittima sacrificale designata contro il bis annunciato di Eisenhower, e veniva ritenuto un debole, inadatto agli scontri frontali con i duri di Mosca. Quel pomeriggio del 25 ottobre 1962 Bob Kennedy, fratello del presidente e Segretario alla Giustizia, è in fibrillazione, vorrebbe sostituire Stevenson con un elemento più battagliero come magari il vecchio ma agguerrito Dean Acheson, teme che Adlai possa capitolare da un momento all'altro di fronte all'ostinazione di Zorin. Ma Stevenson cambia pelle, si dimostra insolitamente energico, non lascia respirare un secondo il suo avversario al tavolo che suda, si consulta con i propri accompagnatori, non risponde. "Signor ambasciatore, avete armi nucleari offensive a Cuba, sì o no? Non aspetti la traduzione! Risponda, sì o no?": Stevenson dal suo scranno è determinato, non molla l'osso. Zorin come ultima carta si dice indisposto a sostenere un confronto basato sulle provocazioni e che non intende rispondere in quel momento. Ed è lì che Stevenson piazza il colpo di teatro: "Sono disposto ad attendere la sua risposta finché l'inferno non sarà congelato", dice con pacatezza ma determinazione il diplomatico, scatenando l'ilarità dei presenti e l'imbarazzo della delegazione sovietica. Messo alle strette, Zorin finalmente parla, afferma che quelle di Stevenson sono illazioni, vuote bugie di propaganda. La reazione dell'ambasciatore USA è semplice, dando disposizione affinché vengano mostrate le foto scattate 24 ore prima da un volo a bassa quota dell'USAF. Foto che mostrano inequivocabilmente i missili già operativi sul suolo cubano. Foto che smentiscono Zorin e che provocano un piccolo terremoto al Cremlino.

La crisi dei missili cubani toccherà l'apice due giorni dopo, il 27 ottobre, con l'abbattimento di un U-2 in missione di ricognizione ad alta quota (l'abbattimento fu deciso d'impulso da un ufficiale cubano scavalcando la gerarchia sovietica), ma la soluzione era ormai alle porte. Nel giro di altri due giorni, tramite colloqui riservati tra intermediari di fiducia, Mosca e Washington trovarono un compromesso, col ritiro tanto dei Saddler quanto degli Jupiter e l'impegno scritto dell'inviolabilità di Cuba e di Berlino Ovest con la decisione condivisa di non pianificare invasioni né blocchi della rispettive sovranità. Il mondo, scopertosi sull'orlo del precipizio, si era salvato all'ultimo grazie ad una paziente opera diplomatica. Stevenson passò alla storia come l'uomo mite che seppe divenire leone al momento giusto, ma scomparve a poco a poco dalla scena. Un anno dopo, nell'ottobre 1963, fu aggredito a Dallas da alcuni estremisti di destra che gli contestavano il ruolo alle Nazioni Unite, un segnale preoccupante della situazione nel Sud degli Stati Uniti che venne forse sottovalutato, visto che il successivo 22 novembre proprio a Dallas il presidente Kennedy venne assassinato in circostanze ancora oggi poco chiare. Stevenson visse con dolore i funerali dell'uomo che gli aveva chiesto di fungere da elemento decisivo nella delicata partita a scacchi dei missili e cominciò a diradare le proprie apparizioni in pubblico sino a quando, in visita a Londra, venne stroncato da un infarto il 14 luglio 1965 mentre passeggiava per strada con la moglie Marietta. Di lui restano le parole del biografo Jean H. Baker: "La memoria di Adlai Stevenson sopravvive ancora come espressione di un diverso tipo di politica: più nobile, più orientata ai problemi, meno conforme alle avide ambizioni dei politici moderni e meno guidata da sondaggi di opinione e media”.

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