Una strage senza colpevoli

Tredici giorni a Natale. Famiglie che sciamano nelle vie della città, vetrine illuminate, luci sgargianti, aria fredda pungente pervasa però dal dolce profumo della festa imminente. Non c'è solo lo shopping natalizio, giacché si continua a lavorare, negli uffici, nelle fabbriche, nelle aziende, nelle banche. Ed è in una banca che agricoltori, mediatori e correntisti si riversano prima del fine settimana per chiudere accordi, ridiscutere posizioni creditizie, ritirare risparmi in vista della lunga pausa festiva. Ci sono uomini, donne, anziani, bambini che si assiepano attorno al bancone a ferro di cavallo nel grande androne sotto la volta oppure agli sportelli a emiciclo. Scene ordinarie di un giorno ordinario. Ma qualcosa di diverso c'è. Perché improvvisamente un lampo investe l'androne, il pesante bancone è sollevato verso l'alto, la volta crolla, i vetri vanno in frantumi, una voragine si apre nel pavimento, i presenti sono scagliati da una forza immane verso l'alto e i muri perimetrali. Siamo a Milano, in Piazza Fontana, all'interno della filiale della Banca Nazionale dell'Agricoltura. E' il pomeriggio del 12 dicembre 1969.

"E' scoppiata una caldaia!" è il primo urlo che arriva da chi, nelle vicinanze, ode la deflagrazione. Ma chi ha esperienza bellica smentisce subito: quel botto lo può fare solo una bomba. Dentro la banca è una carneficina, il bancone ancora sta friggendo sotto il getto d'acqua degli idranti dei vigili del fuoco che sono accorsi sul posto. Qualche soccorritore non regge di fronte alla scena, vomita e sviene. Il bilancio è terribile: i morti sono più di una decina, saliranno a 17 nei giorni successivi mentre tra feriti e mutilati il conto sale a quasi 90 persone coinvolte. Una strage, orribile ed ingiustificata.

Ma quella in Piazza Fontana non è l'unica deflagrazione del pomeriggio del 12 dicembre 1969. A Roma scoppiano altre tre bombe, all'Altare della Patria, al Museo del Risorgimento e nel sottopasso della BNL di via Veneto causando pochi danni ed alcuni feriti. Un'altra viene rinvenuta inesplosa invece a Milano in un ulteriore istituto di credito ed è fatta brillare dagli artificieri con eccessiva fretta. Ce n'è abbastanza per sollevare l'attenzione degli inquirenti che già da mesi devono affrontare una ondata di attentati a mezzo ordigni esplosivi che fino a quel momento avevano causato danni e feriti. Dal cosiddetto Autunno Caldo si è passati ad un inverno rigidissimo. Anzi, a quella che il giornalista Sergio Zavoli chiamerà "la notte della Repubblica".

Chi è stato? La domanda è ricorrente tanto nelle Procure quanto nei comandi dei Carabinieri, nelle Questure ed anche tra l'opinione pubblica. Il dito viene puntato contro gli anarchici, sparuti gruppi extraparlamentari che parlano di rivoluzione nei loro circoli e che qualche volta sfilano con le bandiere rosse e nere che ne simboleggiano l'appartenenza all'ideologia di Bakunin. Gli anarchici sono pochi, sono privi di appoggi politici, sono praticamente indifesi e quasi senza alibi: sono il colpevole perfetto. A Milano la retata al Ponte della Ghisolfa porta in Questura un bel gruppo di persone: tra questi c'è il ferroviere Pino Pinelli, persona mite e gentile. Pinelli conosce bene il commissario Calabresi, si stimano anche se non condividono mezza idea. Quando arriva la Polizia è lo stesso Pinelli a suggerire agli agenti di lasciare che lui segua il cellulare, già pieno, con il proprio motorino. "Dì in Ferrovia che sono malato, che ho l'influenza - dice alla moglie - Non vorrei avere rogne per queste storie". Pinelli quasi presagisce che sarà una storia lunga. E ha ragione, anche se la fine di quella storia non la vedrà mai: dopo 72 ore di interrogatori incessanti e snervanti il suo corpo vola dalla finestra di un ufficio ed atterra rumorosamente nel cortile della Questura. Ufficialmente si tratta di un suicidio ma non ci crede nessuno.

Le attenzioni degli inquirenti però sono rivolte ad un altro anarchico. Si chiama Pietro Valpreda, di professione artigiano e ballerino. Sale in Lombardia da Roma, dove si trovava, dopo aver ricevuto una convocazione a causa di un vecchio volantino anticlericale un po' volgare stampato tempo addietro. Pur febbricitante, Valpreda si mette al volante, guida tutta la notte ed arriva in Questura dove diventa per tutti il colpevole perfetto. Ad inchiodarlo c'è la testimonianza di un tassista, Cornelio Rolandi, che afferma di aver portato un uomo con una borsa davanti alla Banca Nazionale dell'Agricoltura poco prima della strage e di averlo caricato nuovamente, dopo pochi minuti di attesa, per portarlo altrove. Si imbastisce un confronto all'americana, il questore ed il capo dell'ufficio politico fanno schierare un Valpreda in evidente aspetto trasandato ed in stato quasi confusionario dovuto alla febbre a fianco di una mezza dozzina di poliziotti in borghese. "L'è lü" dice Rinaldi indicandolo. Valpreda non capisce subito, poi squadra Rolandi, si tocca il viso mal rasato e strabuzza gli occhi: "Ma guardami bene, ma io non ti ho mai visto e tu nemmeno. Ma sei sicuro di conoscermi?" "Io so solo che ho portato un uomo in taxi - ribatte il milanese - E se non sei tu, qui non c'è". Manette ai polsi, Valpreda esce dalla Questura dove gli operatori della stampa attendono novità. Un cineoperatore della Rai non riesce ad inquadrarlo: "Alza il viso, Mostro!". Per tutta Italia, Valpreda è l'autore della mostruosità di Piazza Fontana.

Ma è davvero così? In realtà già nei giorni successivi emergono altre piste, altre verità. Il presidente del Consiglio Aldo Moro ha incaricato un ufficiale dei Carabinieri di sua fiducia di indagare ed il rapporto consegnato nelle mani del primo ministro è qualcosa di impensabile. Si viene a sapere che la sera successiva alle bombe il ministro dell'Interno Mariano Rumor ha rifiutato di cedere alle pressioni per decretare lo stato d'emergenza e la richiesta delle misure speciali, proprio mentre da diversi punti d'Italia i neofascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale si preparavano a raggiungere la Capitale per una manifestazione dedicata alla richiesta di instaurare un governo autoritario. Moro scopre dell'altro: gli anarchici sono vittime inconsapevoli di una macchinazione che vede coinvolti politici, militari e persino agenti segreti esteri. Non è la trama di un romanzo di spionaggio, purtroppo. Al centro della ragnatela c'è un nome, quello di Mario Merlino. Ufficialmente, militante anarchico ma con un passato piuttosto recente da neofascista. Ha fondato un circolo a Roma da cui proviene Valpreda, attirato con altri in una vera trappola. Merlino giusto qualche mese prima ha fatto un viaggio ad Atene, ospite del regime dei colonnelli greci. Non era da solo ma in nutrita compagnia, con lui c'erano anche un avvocato padovano ed un editore trevigiano. Ma quel rapporto resterà in un cassetto per tanto tempo.

In Veneto però si apre una nuova pista. Un giovane professore, Guido Lorenzon, dopo una meditazione interiore affatto semplice si decide a rendere deposizione davanti ai magistrati. Non è facile per Lorenzon parlare, si tratta pur sempre di accusare un amico. In Procura Lorenzon racconta le confidenze di Giovanni Ventura, piccolo editore che stampa e vende sia il libretto rosso di Mao che il "Mein Kampf" hitleriano. Ventura nelle settimane precedenti si era lasciato andare, aveva raccontato a Lorenzon alcuni particolari che paiono gettare una luce diversa sui contorni della strage. Una luce nera.

Risalendo lungo la traccia raccolta, il procuratore Calogero ed il giudice Stiz individuano parte della cellula padovana di Ordine Nuovo che avrebbe fabbricato gli esplosivi utilizzati negli attentati del 12 dicembre. C'è l'avvocato Franco Freda, uomo di aperte simpatie neonaziste che era già stato sospettato dell'attentato incendiario contro il Rettore dell'Università di Padova. Ci sono usceri dell'Università, militanti di vario livello, persino un esponente di una vecchia famiglia nobiliare. C'è anche una figura molto strana, quella di un giornalista esterno all'organizzazione che però sembra tenere i rapporti tra i vari soggetti implicati. Per competenza territoriale i magistrati trevigiani trasmettono il fascicolo a Milano mentre Freda e Ventura sono arrestati ed alcuni loro complici scappano all'estero. Il giornalista, Guido Giannettini, fugge anche lui su ordine del SID, il Servizio Informazioni Difesa che gli paga lo stipendio.

Il processo si trasferisce dopo poco tempo a Catanzaro per motivi di ordine pubblico - quella che poi è diventata nota come legittima suspicione sulla terzietà dei giudici giudicanti. Dopo vari gradi di giudizio gli imputati sono tutti prosciolti con la formula dubitativa, con pene accessorie per banda armata ed altri reati minori. La strage ufficialmente non ha un colpevole. Per vent'anni nessuno parla più di Piazza Fontana fino a quando un altro ex membro di Ordine Nuovo non si dichiara disposto a parlare con la magistratura. Si tratta di Martino Siciliano che si rivolge al giudice meneghino Guido Salvini accusando un suo vecchio camerata, Delfo Zorzi, mestrino emigrato in Giappone che nel frattempo ha acquisito la cittadinanza nipponica e ha avviato un business di import-export di moda italiana. Le parole di Siciliano trovano conferma in quelle di Carlo Digilio, noto anche come "zio Otto", ex armiere della cellula nera veneta: è stato Digilio a realizzare materialmente le bombe in un capannone a Paese, in provincia di Treviso. Nel corso dell'inchiesta Salvini emergono nuovamente i nomi già noti di Freda, Ventura e Giannettini, non più processabili, ma anche il coinvolgimento di Aginter Press, una strana agenzia giornalistica di Lisbona che in realtà celava una centrale di controspionaggio e terrorismo. Salvini scopre le connessioni dei terroristi con i depositi NATO, con Gladio, con l'ambiente della Rosa dei Venti del colonnello Spiazzi, le coperture offerte dai generali Miceli e Maletti, le connessioni con Gianfranco Bertoli che nel 1973 in occasione di una visita di Rumor alla Questura di Milano aveva lanciato una bomba che aveva provocato quattro morti. E' una complicata tela del ragno quella che si dipana sotto gli occhi del giudice che istruisce il procedimento. Dopo anni di processi però si giunge ad un nulla di fatto giacché vengono accertate le responsabilità di chi era stato precedentemente prosciolto mentre gli accusati della seconda inchiesta escono di scena dopo aver tacciato il testimone cardine, Digilio, di inattendibilità a causa di un ictus che lo aveva nel frattempo colpito.

I 17 morti e gli 88 feriti di Piazza Fontana restano così senza giustizia. Le famiglie, costituitesi parte civile, vivono sulla propria pelle la beffa della condanna al pagamento delle spese processuali. Se la verità storica è ormai accertata, nessuno però ha riconosciuto nelle aule di tribunale quanto effettivamente accaduto lasciando sul terreno solo amarezza. Per Pino Pinelli, per Pietro Valpreda, per chi perse il marito, il padre, il nonno, il fratello, i figli o i nipoti in una strage assurda. Per il commissario Calabresi, accusato ingiustamente della morte di Pinelli ed ucciso qualche anno dopo in maniera barbara proprio a causa di quella brutta storia. Per l'Italia che rischiò di vivere una notte come quella greca e che nei successivi 15 anni avrebbe tremato ancora, scossa da attentati e da bombe, nella folle discesa verso la follia dei terroristi armati spesso e volentieri da personaggi spregiudicati per i quali il fine giustifica sempre i mezzi utilizzati. Anche quelli che massacrano degli innocenti a pochi giorni dal Natale.

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