Quelli della Uno

 La pubblicistica è zeppa di storie inverosimili, di buoni che diventano cattivi, di personaggi ambigui, di episodi in cui il confine tra bene e male è invisibile, di tutori della legge che diventano criminali. Ma un conto sono i libri, ben altra cosa è la realtà. E quando questa si manifesta in tutta la sua cruda durezza si stenta a credere persino ai propri occhi. Si potrebbe pensare ad uno scherzo atroce, ad una beffa orchestrata dal destino, persino ad un fraintendimento. Invece no, è tutto drammaticamente vero. E non è una storia di cappa e spada, né un romanzo noir di Carlotto.

La sera del 4 gennaio 1991 fa freddo a Bologna. Forse è l'umidità a raddoppiare la sensazione di assenza di calore nelle vie delle periferie del capoluogo emiliano, forse è la solitudine che accompagna come abitudine i tutori della legge impegnati in snervanti routine di pattuglia. Nel quartiere del Pilastro si aggira una vettura di servizio, a bordo tre militari dell'Arma dei Carabinieri in divisa. Non hanno granché da segnalare, stanno solo svolgendo il solito giro di controllo in una zona come tante altre. Ma quella non è una sera come tutte le altre, non può esserlo. Lo capisce Otello Stefanini, 22 anni, di Roma: è lui al volante della gazzella che nel corso del suo giro sorpassa una Fiat Uno bianca, una macchina come tante, un veicolo comune. Però da quel veicolo che sbuca all'improvviso alla sinistra di Stefanini spuntano delle armi che sparano all'impazzata. Il carabiniere riceve diversi colpi all'addome ed alle gambe ma ha la forza di riuscire a guidare ancora per qualche centinaio di metri fino a schiantarsi, ormai morente, contro i cassonetti dell'immondizia. I suoi colleghi, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, entrambi di appena 21 anni, scendono rapidamente brandendo pistola e mitraglietta per rispondere al fuoco ma dopo poco vengono falciati entrambi dal fuoco proveniente da quella Fiat maledetta. Quando le armi dei carabinieri tacciono, uno degli assalitori scende dall'auto con la Beretta in pugno con cui spara tre colpi, tutti alla nuca dei malcapitati militari. Il colpo di grazia è la firma della strage del Pilastro a nome della famigerata Banda della Uno Bianca.

Nonostante delle indagini complesse in cui viene evocata la malavita comune, persino la NCO di Raffaele Cutolo ed in cui la Digos svolge il ruolo involontario di depistatrice, ci sono pochi dubbi. A compiere il massacro sono stati gli stessi rapinatori che da più di tre anni stanno seminando il terrore lungo l'Adriatica. La Banda della Uno Bianca, prima nota come "banda dei caselli", ha iniziato rapinando stazioni di servizio e caselli autostradali. Il primo conflitto a fuoco tra i membri del sodalizio criminale si verifica vicino a Cesena in seguito ad un tentativo di estorsione: un concessionario d'auto riminese avvisa la Polizia che tende una trappola alla banda la quale reagisce sparando all'impazzata e ferendo gravemente il sovrintendente Antonio Mosca che morirà quasi due anni dopo in seguito ad una lunga agonia in ospedale. Da quel momento in avanti il gruppo criminale che inizia a servirsi abitualmente di Fiat Uno di colore bianco rubate - è una delle auto più presenti in circolazione, quindi è di difficile individuazione - spara per uccidere in altre undici occasioni: le vittime sono guardie giurate, semplici cittadini ed anche due carabinieri che pagano con la vita il coraggio dimostrato nel fermare la vettura della banda. Anche un uomo, Primo Zecchi, viene ucciso a mitragliate perché, insospettito dal girovagare di quella Uno bianca, ne aveva annotato il numero di targa.

Al Pilastro la motivazione del massacro è simile. I componenti del gruppo di fuoco si stavano recando a San Lazzaro di Savena per rubare un'altra auto con cui compiere nuove imprese criminali ma, vistisi superati dalla gazzella, avevano temuto di essere identificati ed avevano reagito sparando all'impazzata. Nell'azione però uno dei malviventi è rimasto ferito all'addome tanto da perdere sangue sul sedile. Anche per questo motivo, giunti a San Lazzaro, i suoi compagni incendiano la Uno per distruggere eventuali tracce che possano portare all'identificazione.

Ma la scia di morte non si ferma alla mattanza dei carabinieri. Nei mesi successivi la banda rapina numerosi istituti di credito ed uccide benzinai, armaioli, direttori di banca, artigiani. Un giovane, Massimiliano Valenti, è sequestrato e poi giustiziato a Zola Predosa: la sua colpa, quella di aver assistito ad un cambio d'auto dopo un blitz in una banca. Due operai senegalesi sono trucidati ed un terzo gravemente ferito a San Mauro Mare: non avevano fatto nulla, semplicemente la banda rivela le proprie tendenze fasciste e xenofobe sparando anche contro stranieri innocenti ed inermi.

Sulle tracce della banda c'è però qualche ottimo investigatore. Su tutti, l'ispettore Baglioni ed il sovrintendente Costanza della Questura di Rimini, colleghi del defunto Mosca che non vogliono assolutamente rinunciare ad acciuffare quei criminali che stanno terrorizzando un'intera regione. I due poliziotti cominciano a passare in rassegna ogni dettaglio di rapine e sparatorie, comprese le tattiche adottate. Sono due i dettagli che insospettiscono Baglioni e Costanza: prima di tutto, la banda pare conoscere fin troppo bene il modus operandi delle forze dell'ordine, come se i suoi componenti ne avessero fatto parte in un recente passato; la seconda è l'utilizzo di armi da guerra tra cui il fucile d'assalto semiautomatico Beretta AR 70/90, un'arma in dotazione solo ai corpi militari e di Polizia che non è facilmente reperibile nemmeno nel mercato clandestino e di cui esistono pochissimi esemplari in versione civile a calibro Remington. Soprattutto i due investigatori romagnoli capiscono che la banda studia minuziosamente il terreno prima di ogni colpo: se le prime rapine ai caselli erano state piuttosto semplici e forse anche frutto di una preparazione minima, per quanto riguarda le banche molto probabilmente i banditi fanno appostamenti continui per essere certi di ogni tempistica e circostanza.

Il 3 novembre 1994 la sorte aiuta gli audaci poliziotti. Mentre sono appostati vicino ad una banca di Santa Giustina (frazione di Rimini) Baglioni e Costanza notano una Fiat bianca: non è una Uno, è una Tipo, ma ha entrambe le targhe incrostate di sporcizia ed il conducente non solo ha un fare sospetto ma assomiglia moltissimo a quello immortalato dalle telecamere di un paio di istituti di credito precedentemente rapinati. Quando la Fiat si rimette in moto i poliziotti la seguono fino ad un'abitazione di Torriana intestata ad un carrozziere: si chiama Fabio Savi ed è il fratello di un poliziotto in servizio alla Questura di Rimini.

Baglioni e Costanza non credono ai loro occhi ma una serie di controlli incrociati chiarisce in poco tempo i contorni della vicenda. La Banda della Uno Bianca è costituita attorno ai tre fratelli Savi: il più vecchio, Roberto, è anche lui un agente di PS e lavora a Bologna; detiene due Beretta AR 70/90, il secondo acquistato pochi giorni prima della strage del Pilastro in cui è rimasto ferito. Detto di Fabio, anche Alberto che nel 1994 ha 29 anni è in Polizia ma ha una personalità molto più debole degli altri due che dominano la scena e che si rivelano maneschi, xenofobi, ai limiti della maniacalità. La moglie di Roberto Savi sa dei suoi trascorsi nel FUAN, del fatto che sia stato trasferito come punizione alla centrale operativa della Questura per aver rasato a zero un ragazzo accusato di detenzione di stupefacenti, sa persino che il coniuge ha dedicato gli ultimi sette anni ad una seconda vita da fuorilegge. Ma non denuncia mai, ha troppa paura dell'uomo che ha sposato. Quando i colleghi gli mettono le manette nel cortile della Questura bolognese, Roberto Savi li guarda con occhi di ghiaccio e sibila: "Potevo farvi saltare in aria tutti quanti". Con lui finiscono ai ferri Alberto e tre membri minori della Banda, tutti poliziotti in servizio che avevano partecipato alle prime azioni o che ne avevano coperto le tracce. Fabio Savi è l'unico a tentare la fuga: lo ferma la Polstrada lungo l'autostrada che porta in Austria, nella sua auto c'è la giovane rumena Eva Mikula, sua amante, che davanti ai magistrati fornirà testimonianze preziose.

Il processo alla Uno Bianca si chiude il 6 marzo 1996 con la condanna all'ergastolo per i tre Savi e per Marino Occhipinti, il quarto uomo; Pietro Gugliotta è condannato a ventotto anni, ridotti a 18 in appello, mentre Luca Vallicelli patteggia tre anni ed otto mesi di carcere. Lo Stato, vista la qualifica di pubblici ufficiali di cinque dei sei malviventi, dovrà risarcire le famiglie delle ventiquattro vittime della follia omicida con diciannove miliardi di lire. Il padre dei Savi, Giuliano, non reggerà alla vergogna: si suiciderà ingoiando sette confezioni di ansiolitico all'interno di una Uno bianca parcheggiata a Villa Verucchio nell'entroterra riminese, quasi a lanciare una maledizione sui figli. Alberto Savi usufruirà del primo permesso premio per uscire di galera nel febbraio 2017 per incontrare la madre malata. Fabio e Roberto invece non otterranno facilitazioni di sorta ed ancora oggi scontano la loro pena in istituti di massima sicurezza.

Commenti

  1. non capisco perchè Noir Italiano a parte la strage del quartiere Pilastro dedichi tutti filmati brevi alla Uno Bianca e breve è anche lo scritto relativo alla banda della Uno Bianca

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