Da assedianti ad assediati

L'improvvisa tranquillità, rotta solo dalle grida di giubilo e dalla comprensibile voglia di festeggiare, investe quel che un tempo era una grande città e che ora è ormai un enorme cumulo di macerie. Dalla vecchia fabbrica che un tempo produceva mattoni e che negli ultimi mesi si era convertita ai carri armati alle rovine dei palazzi sino all'università per la prima volta dopo sei mesi e mezzo Stalingrado respira un clima diverso. Il freddo è sempre pungente e resta uno dei primi nemici in agguato, ma la morte non arriverà più nei combattimenti strada per strada, caseggiato per caseggiato, stanza per stanza. Il 2 febbraio 1943 è un giorno davvero speciale per quel che resta della popolazione e per i soldati dell'Armata Rossa. E' il giorno in cui l'ultimo caposaldo della 6a Armata tedesca si arrende decretando la fine della titanica battaglia che ha segnato la sorte della II Guerra Mondiale.

Stalingrado è diventata un simbolo. Non solo per il nome che richiama lo pseudonimo del dittatore di Mosca impegnato dal giugno 1941 in un confronto serrato con Hitler, ma per l'enorme spirito di sacrificio dimostrato dalla sua gente e dai soldati chiamati a combattere per difendere lo snodo del Volga ed evitare che le truppe dell'Asse possano sfondare nelle pianure meridionali e dirigersi verso il Caucaso ed i suoi pozzi petroliferi. Stalingrado per mesi è stata l'estrema linea difensiva dell'URSS, costretta ancora a contenere le puntate offensive dello Heer e dei suoi alleati che, fallito l'assalto a Mosca, hanno cambiato scelta strategica optando per il cosiddetto "Piano Oriente". Il nuovo obiettivo è stato rivolto verso Sud, verso quel quadrante che da Baku sino ad Abadan costituisce il polmone energetico del Comintern e degli Alleati impegnati in una guerra totale.

Quando le avanguardie della 6a Armata, in ottemperanza all'Operazione Blu, si spingono sino al bacino del Volga e del Don accerchiando sui lati occidentali la città di Stalingrado, le temperature sono calde, quasi afose. Un milione e mezzo di uomini - soprattutto tedeschi, ma anche italiani, rumeni, ungheresi e croati - compongono una massa enorme ed eterogenea schierata con il chiaro intento di sfrattare i sovietici dall'area per poi avviare la conquista del Caucaso. La tabella di marcia ha richiesto un ritardo di due mesi a causa dell'assedio di Sebastopoli ma quando la macchina bellica dell'Asse si rimette in moto la sua avanzata pare inarrestabile. Stalin ha compiuto qualche errore di pianificazione di troppo anche se è riuscito a salvare parte delle sue armate diramando un rapido ordine di ritirata strategica. Il 17 luglio 1942 le pattuglie di ricognizione della 6a Armata, punta di diamante del Gruppo d'armate B, entrano nei sobborghi di Stalingrado ingaggiando battaglia con i primi difensori mentre italiani, rumeni ed ungheresi si schierano a protezione del fianco sinistro lungo il Don.

Al comando della 6a Armata c'è un generale sconosciuto ai più. Si chiama Friedrich Paulus, non ha ancora compiuto 52 anni ed è ritenuto un ottimo pianificatore ma privo di un requisito che tanti ritengono fondamentale ovvero l'esperienza sul campo. Quando alla fine del 1941 Hitler in persona decide la rimozione del vecchio feldmaresciallo Gerd von Rundstedt che ha osato criticare le sue idee strategiche, la scelta per la sostituzione al comando cade un po' a sorpresa su Paulus: pare che questo ancora oscuro generale proveniente dall'Assia goda della stima di von Reichenau, forse il miglior alto ufficiale dell'esercito tedesco sotto cui Paulus ha servito come capo di Stato Maggiore nei giorni felici della conquista della Polonia. A caldeggiare il nome di Paulus sono anche von Manstein e Halder, altri due esperti della guerra di movimento, mentre i rapporti critici inviati sul conto del comportamento di Rommel in Africa e le idee giudicate troppo attendiste da Guderian non depongono a favore del nuovo comandante della 6a Armata in diversi ambienti dello Heer. La morte improvvisa per infarto di von Reichenau davanti a Mosca non è colta come un infausto presagio da Paulus che il 5 gennaio 1942 si è insediato nel suo nuovo posto di comando alla guida di un gruppo che comprende 13 divisioni di fanteria, una divisione da montagna, tre divisioni corazzate (di cui una mantenuta in riserva) ed altrettante motorizzate. Conscio del suo delicatissimo ruolo, Paulus si applica per eseguire gli ordini che gli giungono ed approfitta del crollo del fronte meridionale all'inizio dell'estate del 1942 per portare i suoi uomini a compiere un enorme balzo verso il bacino del Volga.

A difendere Stalingrado ci sono le riserve strategiche dell'Armata Rossa spostate in tutta fretta dallo Stato Maggiore. Stalin è perentorio e non vuol sentire ragioni: "Non un passo indietro!" ordina ai suoi il 28 luglio. Stalingrado deve resistere, costi quel che costi, e non importa che nelle prime settimane di combattimenti mezza città venga rasa al suolo dall'artiglieria e dall'aviazione dell'Asse mentre le riserve corazzate si assottigliano sempre più. Dalla riva orientale del Volga si tenta in ogni modo di portare forze fresche a rimpinguare le linee delle tre armate che si sono dissanguate in battaglia e che sono sempre più demoralizzate dopo il crollo del fronte meridionale. Anche Paulus avverte i primi problemi poiché le linee di rifornimento si sono eccessivamente allungate nell'avanzata lampo ed il rischio di restar tagliati fuori dagli approvvigionamenti aumenta settimana dopo settimana. I suoi superiori gli ribadiscono di non preoccuparsi e di schiacciare la resistenza di Stalingrado piuttosto, visto che la città è l'ultimo ostacolo prima dell'auspicata vittoria decisiva.

Per tre mesi i soldati tedeschi combattono letteralmente sulle rovine della città avanzando metro per metro, anche se a prezzo di enormi sacrifici. La popolazione locale è arruolata sul posto negli ausiliari dell'Armata Rossa, ai giovani così come agli anziani è ripetuto l'ordine di Stalin. La carneficina è quotidiana mentre la fabbrica Krasny Oktjabr converte la sua produzione da trattori agricoli in tank. Ad ottobre l'Asse è ad un passo dalla vittoria totale. Čujkov, comandante delle truppe sovietiche, è tormentato da una fastidiosa dermatite e deve al contempo vedersela con un nemico preponderante e che domina persino il cielo. L'imperativo ormai diventa la difesa degli ultimi opifici e della zona dell'imbarcadero che serve a far affluire i rinforzi da Est. Tra il 14 ed il 28 ottobre i tedeschi sferrano la loro offensiva finale preceduta al solito da un terrificante bombardamento ma nemmeno stavolta i difensori cedono: le fabbriche sono imprendibili, i russi si frammentano in nuclei che difendono sino all'ultimo uomo improvvisate posizioni ricavate tra i palazzi distrutti costringendo gli attaccanti ad una "Rattenkrieg", una "guerra da topi" casa dopo casa. Stalingrado si salva così, con un ennesimo sacrificio che evita il crollo definitivo dell'URSS a Sud.

Quel che Paulus, impegnato a racimolare sempre nuove unità da lanciare all'attacco, non sa è che sul fronte opposto si stanno già preparando le contromosse che si manifestano il 19 novembre. Proprio poche ore prima di decretare l'ennesimo assalto il comandante tedesco riceve la terrificante notizia dell'avvio dell'Operazione Urano con cui l'Armata Rossa irrompe da Nord distruggendo l'unica divisione corazzata presente lungo il Don (la rumena Divizia 1 Blindată) e respingendo i tentativi di soccorso portati dalle riserve blindate tedesche. Il crollo repentino del fronte del Don con la ritirata di ungheresi e rumeni provoca nel giro di pochi giorni l'isolamento della 6a Armata che da assediante si ritrova assediata tra le rovine. Il 23 novembre la manovra a tenaglia si chiude e Stalingrado è accerchiata dalle colonne meccanizzate e corazzate di Vatutin e Romanenko. Intuendo il pericolo Paulus ed il suo superiore von Weichs chiedono con urgenza a Berlino l'autorizzazione a sganciarsi ed a ritirarsi a Rostov per evitare l'annientamento. Hitler però si manifesta ottuso e non vuole sentir parlare di ripiegamento: "Vittoria o morte!", urla. In quel momento Paulus capisce che il suo comando diventerà una disperata lotta per la sopravvivenza dei suoi uomini.

Da inizio dicembre in avanti i soldati tedeschi si ritrovano sempre più a mal partito. I difensori di Stalingrado, galvanizzati dall'esito dell'Operazione Urano e rinforzarti da nuove truppe, incalzano ora gli invasori mentre dall'anello esterno le forze meccanizzate continuano ad avvicinarsi. L'OKH prepara un tentativo di salvataggio ma la formazione assemblata è raccogliticcia, composta da tre Panzerdivisionen sottonumero e bisognose di rinforzi che non arriveranno mai. Il generale Hermann Hoth si comporta comunque egregiamente cogliendo qualche incoraggiante successo ma non basta per rovesciare le sorti complessive della battaglia: occorrerebbe un ordine di ripiegamento generale che però Hitler continua a rifiutarsi di firmare preferendo piuttosto trasformare la tragedia della 6a Armata in uno spettacolo a beneficio della propaganda di regime. Per il dittatore il soldato tedesco deve combattere sino all'ultima cartuccia e morire per la gloria ed il suo Paese, ogni altra ipotesi alternativa non va nemmeno contemplata.


Mentre il gelo comincia a mordere in maniera decisa con neve e ghiaccio che ricoprono le macerie Paulus fa il possibile per salvare i suoi. Il crollo anche degli alleati italiani che ripiegano in colonna continuando comunque a combattere in retroguardia è la mazzata finale, nessuno salverà i soldati della 6a Armata e la perdita degli aeroporti da cui decollano gli aerei da rifornimento rende drammatica la resistenza. Il 10 gennaio 1943 l'Operazione Anello segna il destino dei tedeschi intrappolati che da quel momento in poi sono completamente soli. Prima di perdere le ultime piste e gli ultimi aerei Paulus riesce ad evacuare 30mila feriti, mutilati e congelati restando comunque conscio dell'impossibilità di una ulteriore difesa delle posizioni. A fine gennaio l'offensiva sovietica si intensifica con massiccio ricorso all'artiglieria per distruggere le sacche di resistenza che una ad una vengono liquidate. Da una di queste nel pomeriggio del 31 gennaio emerge una figura alta, infagottata in un pastrano militare, con la barba lunga e le occhiaie fonde ad incorniciare il viso: è Friedrich Paulus che assieme al suo capo di Stato Maggiore Schmidt si lascia catturare dai sovietici ed accetta nel giro di 24 ore di firmare la resa. Le ultime resistenze cessano alle prime ore del 2 febbraio mentre quel che rimane della 6a Armata, 90mila uomini ormai privi di munizioni e di cibo, si consegna ai sovietici.

La battaglia di Stalingrado che doveva decidere le sorti della guerra ad Est si conclude con uno schiacciante successo per l'Armata Rossa che non solo salva le risorse strategiche ma ottiene nuovo slancio. Per l'Asse invece è una catastrofe che segue di pochi mesi la disfatta di el-Alamein e determina il rapido mutamento delle sorti del conflitto: da quel momento in avanti le truppe germaniche dovranno combattere principalmente in difesa, tentando solo poche iniziative offensive che non porteranno benefici di sorta. Dopo aver respinto i precedenti ultimatum sovietici, Friedrich Paulus rifiuta di suicidarsi come ordinatogli da Hitler che come ultimo stimolo gli aveva fatto conferire il bastone da feldmaresciallo e preferisce la prigionia. A Mosca diviene una voce critica del regime nazista stilando appelli per i suoi ex commilitoni affinché cessino di combattere per una causa perdente. A guerra conclusa sarà testimone d'accusa a Norimberga pur continuando ad essere a tutti gli effetti un prigioniero di guerra dell'URSS. Rilasciato nel 1953, si stabilirà a Dresda, nell'allora DDR, lavorando sino alla morte, sopraggiunta per SLA nel 1957, come direttore dell'ufficio storico militare.

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