"Italiani, brava gente"? Forse no

L'Italia all'estero è un florilegio di luoghi comuni: pizza, spaghetti, calcio, mandolino, mafia, donnaioli sono alcuni dei simboli accostati con maggiore frequenza al Belpaese ed ai suoi abitanti. Ad irrobustire questo calembour è un detto, "Italiani, brava gente" che accompagna da tempo la figura media del cittadino italico: un concetto introdotto in epoca coloniale per creare il falso mito di unità in contrapposizione alla barbarie dell'Africa, alla grandeur francese e in ultima analisi ai crimini di guerra nazisti. Ma come detto, è un falso mito e la Stria smentisce puntualmente, con fatti incontrovertibili, le mistificazioni nate dalla suggestione popolare, sociale o politica.

Domeniko è un piccolo villaggio nella prefettura di Larissa, in Tessaglia. Non è nulla di speciale, sono casupole di pietra e tufo di pastori, contadini ed in passato qualche contrabbandiere; la solita chiesa greco-ortodossa sulla piazza, l'aspro paesaggio ellenico attorno con le brulle colline su cui crescono gli olivi e le poche rovine di Ciretiae, antica polis distrutta da Perseo di Macedonia nel II secolo Avanti Cristo. Si direbbe un luogo anonimo, come tanti altri nella penisola ellenica alle propaggini di quel Monte Olimpo che un tempo si credeva essere dimora degli dei. Non è certo un luogo di importanza strategica né un obiettivo militarmente rilevante. Nel febbraio del 1943 nella zona di Larissa, capoluogo della Tessaglia, risiede la 24a Divisione di Fanteria "Pinerolo", 16mila uomini al comando del generale di divisione Cesare Camillo Benelli incaricati di garantire l'occupazione territoriale, mantenere l'ordine pubblico e reprimere la resistenza partigiana.

Benelli è sardo di nascita ma soprattutto è uomo d'arme: ha combattuto da giovane sottotenente di artiglieria sia in Libia, durante la Guerra Italo-Turca, che nel corso del primo conflitto mondiale meritando la Medaglia d'argento e la Croce di guerra. Durante il Ventennio ha fatto carriera, ha frequentato la Scuola di Guerra e ha ottenuto l'agognata "greca" da generale, diventando comandante dell'artiglieria prima del 2° Corpo ad Alessandria e poi della 5a Armata in Africa Settentrionale. Dall'ottobre 1941 è in Grecia come comandante della "Pinerolo", inizialmente ad interim e successivamente di ruolo, impegnato in un incarico di retrovia snervante che mette alla prova la tenuta degli uomini della sua unità il cui nerbo è composto da tre reggimenti di fanteria e da una legione di Camicie Nere.

Il 16 febbraio 1943 proprio un manipolo di militi del console Ruggero è impegnato in un trasporto di materiale con alcuni autocarri requisiti. A pochi chilometri da Domeniko la colonna cade però in un'imboscata dei partigiani ellenici comunisti dell'ELAS che, appostatisi su una collinetta, aprono il fuoco contro il nemico con mitragliatori e bombe a mano. L'attacco a sorpresa costa la vita a otto Camicie Nere mentre un nono soldato, ferito gravemente, morirà di lì a poco in ospedale; anche due ufficiali ed altri tredici militi rimangono feriti dalle pallottole e dalle schegge ma i greci pagano subito a caro prezzo l'imboscata perché esaurito l'effetto sorpresa gli italiani passano al contrattacco e nel giro di un'ora non solo uccidono otto partigiani ma si lanciano all'inseguimento degli attaccanti nel frattempo scappati e ne catturano in abbondanza: tutti (il totale dei prigionieri è di 35) sono fucilati sul posto.

L'imboscata non piace al console Ruggero che preme per una rappresaglia sulla popolazione civile sospettata di aver dato rifugio ad altri partigiani e di rifornire sottobanco la resistenza di viveri ed informazioni. L'ufficiale fascista si reca al comando divisionale, presenta il proprio rapporto e discute con il generale Benelli sulle misure da adottare. "Occorre dare un segnale - dice Benelli - I greci vanno puniti per quanto hanno fatto"; d'altronde gli alleati tedeschi applicano usualmente questi metodi ed è tempo che anche gli italiani li utilizzino per far desistere la popolazione da propositi di ribellione. Carta bianca dunque agli ufficiali per organizzare la rappresaglia, l'obiettivo è il villaggio di Domeniko che dista poca strada dal luogo dell'agguato e che è in cima alla lista dei sospettati come potenziale base degli irregolari. Non sono passate nemmeno quattro ore dalla sparatoria che l'abitato è prontamente circondato dai soldati del Regio Esercito cui spetta l'onere di vendicare i commilitoni uccisi e feriti. Il sole pomeridiano è ancora alto in cielo quando gli uomini in grigioverde sfondano le porte delle case del paesino convogliando in piazza uomini, donne e bambini. 

"Qui qualcuno aiuta i banditi a uccidere gli italiani - tuona un ufficiale - Voglio i nomi dei responsabili o ne pagherete tutti le conseguenze". Nessuno si fa avanti, gli sguardi delle famiglie contadine di Domeniko sono smarrite e spaurite, gli occhi sono puntati sui moschetti e sulle mitragliatrici. Prima che il sole cali arrivano gli autocarri, si decide di evacuare il villaggio che sarà bruciato mentre la sua popolazione finirà in campo di concentramento. Uomini e ragazzi da una parte, donne e bambini fino ai 14 anni dall'altra, ognuno in fila per salire su uno dei camion verso la prigionia. Solo poche persone sono risparmiate dal rastrellamento, si tratta del capovillaggio, di suo fratello, di suo cugino e dei rispettivi famigliari; i loro compaesani li guardano con disprezzo e capiscono subito il motivo di quella cortesia: sono stati gli occupanti italiani a dare l'incarico di sindaco a quell'uomo mentre i suoi congiunti da mesi sono confidenti del Regio Esercito cui passano informazioni sugli sbandati. Ai tre ed alle loro famiglie è consentito di salire su un autocarro apposito che li porterà a Larissa, capoluogo della regione - si scoprirà poi che i delatori hanno comprato la loro libertà promettendo di fare i nomi dei capi partigiani della Tessaglia.

Mentre gli artificieri della "Pinerolo" piazzano le bombe incendiare per distruggere Domeniko, due colonne motorizzate partono dal paesino in direzione Larissa. Sulla prima ci sono donne e bambini, per loro si prospetta la prigionia in uno dei tanti campi di concentramento allestiti dall'occupante italiano. Il secondo convoglio è quello di uomini e ragazzi la cui sorte dovrebbe essere la medesima. Ma nel buio della sera Benelli manifesta una idea diversa, più crudele: la vita di un militare italiano vale almeno dieci volte quella di un civile greco. In località Damasi i veicoli si fermano, i prigionieri sono costretti a scendere e ad allinearsi, mani alzate, in un campo. Alla luce dei fari dei camion le armi italiane crepitano e falciano 97 vite, i cadaveri vengono abbandonati sul posto come monito contro i partigiani. "Totale, 140 sudditi greci deceduti - scrive Benelli nel suo rapporto ai superiori - Un vero esempio e monito per il futuro". Altro che "Italiani, brava gente".

Il futuro tuttavia riserverà non poche sorprese al bellicoso generale. Mentre da quel 16 febbraio in avanti le fucilazioni ad opera del Regio Esercito diventeranno una regola in tutta la Grecia occupata, la situazione bellica volgerà rapidamente verso il disastro. Benelli, dopo aver scoperto di essersi gravemente ammalato, torna in Italia e cede il comando della "Pinerolo" al collega Adolfo Infante reduce dal comando della "Ariete" in Nordafrica. Riparato a Chieti dopo l'armistizio di Cassibile, vi morirà il 28 novembre 1943 a 58 anni d'età. La "Pinerolo" sotto la guida di Infante invece sarà l'unica divisione ad opporsi efficacemente al disarmo da parte dei tedeschi e si unirà ai partigiani ellenici i quali però si vendicheranno ugualmente per la rappresaglia di Domeniko: migliaia di militari italiani saranno costretti a cedere le armi ed a farsi internare in campi di prigionia, condannati a morire di stenti, e solo l'intervento della missione militare britannica sollecitata da Infante consentirà dopo quasi un anno il rimpatrio dei reduci.

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