Ricordare per capire, non per dividere (Editoriale)

Avvertenza: quello odierno non è un Racconto di Storia canonico quanto un editoriale. L'eccezione è dovuta alla necessità, avvertita ancora oggi, di studiare eventi complessi a lungo taciuti per convenienza politica o per imbarazzo, oppure strumentalizzati da varie parti ingigantendo o sminuendo la portata dei medesimi a seconda delle convenienze.

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Destabilizzare per stabilizzare: chi l'ha detto che questa massima sia stata inventata negli anni '60 dagli spin doctor del Pentagono o dai teorici transalpini della guerra controrivoluzionaria? Gli eredi dei ministri asburgici e della polizia austriaca di fine '800 potrebbero a buon titolo rivendicare il brevetto della teoria politica degli opposti estremismi, quel metodo che prevede di contrapporre le frange più oltranziste perché si combattano tra loro rafforzando al contempo la centralità di uno Stato forte ed anche autoritario. Perché la famosa Questione Orientale nasce molto prima del 10 febbraio 1947, giorno in cui la neonata Repubblica Italiana firma a Parigi i trattati di pace che sanciscono il ridimensionamento territoriale in Europa con la perdita delle propaggini ad Ovest (i Comuni di Tenda e Briga Marittima) e soprattutto ad Est.

Le dispute confinarie che per decenni hanno generato attriti internazionali e locali affondano le proprie origini in un'antesignana della strategia della tensione, quando l'imperialregio governo di Vienna decide di soffiare sul fuoco del nazionalismo croato per controbilanciare l'irredentismo italiano. La scintilla d'odio è tutta lì, in quell'innesco velenoso che avvia una spirale di sospetti e che frantuma secoli di convivenza non certo semplice ma pacifica ed operosa per ridare stabilità al decadente Stato asburgico. Alle richieste croate di maggiore autonomia se non addirittura indipendenza si risponde non con le misure richieste ma suggerendo che un riassetto federativo dell'Impero sia impossibile a causa dell'evidente volontà degli ultimi sudditi italiani di riunirsi ai loro connazionali nel da poco costituito Regno d'Italia.

Sono tre i fatti storici che faranno precipitare la situazione ad Est. Il primo, notissimo, sono le pistolettate di Sarajevo, l'attentato di Gavrilo Princip ai danni dell'arciduca Francesco Ferdinando erede al trono e della consorte Sofia. Il secondo, mitizzato dalla pubblicistica italiana come "impresa di Pola", è l'affondamento in porto della "Viribus Unitis": la nave, trasferita da pochissimo con tutto il resto della flotta al neonato Stato degli Sloveni, Croati e Serbi per sottrarla ad una quasi certa assegnazione come preda bellica, cola a picco alle prime luci dell'alba del 1° novembre 1918 con la morte di Janko Vukovic, croato, ufficiale designato al comando della flotta stessa. Se quell'episodio viene celebrato in Italia come un atto eroico, tra i nazionalisti croati lo stesso provoca rabbia e risentimento per quello che viene definito come un attacco a tradimento.

Il terzo fatto che sancisce la rottura definitiva è senza dubbio il rogo del Narodni Dom a Trieste, il primo vero atto di squadrismo organizzato. Con l'assalto all'edificio simbolo della presenza sociale, economica e culturale di sloveni e croati nel capoluogo giuliano si assiste alla precisa volontà di risolvere con la forza la questione, a costo di ridisegnare i confini geopolitici scatenando il terrore nella popolazione civile di etnia differente - una lezione questa che sarà imparata e specularmente applicata un ventennio dopo dalla parte opposta. Invece di ricucire si estremizza, si trasforma il confronto in scontro in cui il contendente più forte (per appoggi, preparazione militare, agganci in politica estera, interessi commerciali) prevale ed il più debole deve accettare in silenzio.

La tragedia che si compie nei tre anni e mezzo che intercorrono tra l'8 settembre 1943 ed il 10 febbraio 1947 è punteggiata da tanti fatti di sangue. Subito dopo l'annuncio dell'armistizio, mentre il Regno si dissolve in un caos di ordini ed i militari subiscono l'atroce ritorsione nazista, in Venezia Giulia si assiste ad una duplice esplosione di violenza. Oltre all'aggressione tedesca ai reparti regolari italiani che, privi di ordini precisi, tentano disperatamente di rientrare a casa, ne approfittano anche i partigiani croati per regolare i conti ventennali col decaduto regime sequestrando e giustiziando funzionari pubblici, della disciolta Milizia e di quelle che furono le strutture del PNF. Le foibe, quelle cavità carsiche che si aprono come voragini nel terreno, ricevono un primo lotto di vittime in quel breve periodo di settembre del '43. Ma non saranno le sole, ché passata l'orgia di sangue post armistiziale tedeschi ed ustascia tornano a caccia non solo di soldati italiani scappati ma soprattutto di partigiani titini i cui corpi finiscono nelle cavità, assieme a quelli di civili che si oppongono al soffocante regime di Pavelic che teorizza una autentica pulizia etnica contro chiunque non sia croato. La terza infornata di vittime giunge a guerra ormai conclusa, con la definitiva avanzata titina e la dissoluzione tanto dello Stato fantoccio del Poglavnik quanto della forza d'occupazione tedesca: da quel momento il terrore è utilizzato sempre più come leva motivazionale per spingere gli italiani, privi di qualunque tutela giuridica ed a stento difesi dai sopraggiunti inglesi e neozelandesi, ad abbandonare le terre istriane e giuliane.

La strage di Vergarolla del 18 agosto 1946, quando sulla spiaggia di Pola esplode un deposito di mine navali tedesche nel pieno svolgimento di una gara sportiva indetta dalla comunità italiana, è l'ultimo e decisivo segnale. Stavolta le posizioni di forza sono invertite, la rinascente Jugoslavia si siede al tavolo delle trattative con una indubbia posizione di forza e nessuno tra gli Alleati intende rivedere le decisioni già prese a Teheran e a Yalta per sovvertire un equilibrio segnato sulle cartine geografiche e destinato a creare la divisione bipolare non solo del Vecchio Continente ma del mondo. L'Italia avrà sì un posto nel futuro prossimo all'interno della nascitura Alleanza Atlantica ma nell'immediato non ha voce in capitolo sulle questioni confinarie e non può in alcun modo tutelare i propri connazionali rimasti dall'altra parte dell'Adriatico. Nelle settimane che precedono la firma dei trattati di pace le pressioni della polizia segreta jugoslava sono pesantissime, a Pola e nelle altre città il clima di terrore si respira a pieni polmoni e nessuno si fa illusioni su quel che accadrà. D'altronde la scelta di campo preannunciata dal quotidiano "L'Arena di Pola", organo d'informazione degli italiani istriani, è chiara da tempo: "O l'Italia o l'esilio", aveva titolato il giornale già il 3 luglio 1945 e quelle parole avrebbero indotto la politica jugoslava a spingere sempre più, in maniera violenta, affinché potesse esservi una sola opzione di scelta. Le pistolettate con cui Maria Pasquinelli, già fiancheggiatrice fascista della X MAS, colpisce a morte il generale Robert de Winton il 10 febbraio 1947 a Pola ribadiscono l'isolamento politico degli istriani italiani che hanno perso qualunque tutela ed in quel momento si alienano anche la simpatia di buona parte della politica romana.

La tragedia dell'esodo si compie negli anni a venire con continue partenze che durano sino al 1960 nonostante la definizione dello status quo tramite il memorandum di Londra ed i trattati di Osimo che riportano a pieno titolo Trieste in Italia. Gli esuli sono trattati con indifferenza, a volte fastidio dalla cittadinanza dei Comuni che li accolgono mentre lo Stato tacita le coscienze nell'unico modo che conosce, quello dei risarcimenti e dei posti di lavoro. Non basterà a mettere da parte l'odio, a combattere l'insorgenza di nuove insofferenze, a chiudere una lunga stagione difficile, ad elaborare lo studio di una Storia comune e la nascita di una memoria condivisa. Se l'Italia post bellica sommerge con l'oblio la questione orientale per convenienza, per intrattenere preziosi legami commerciali con la Jugoslavia fomentandone al contempo il terzomondismo in ottica anti-sovietica, alcune formazioni politiche su ambo i lati sfruttano il risentimento ed il dolore per fini propagandistici ed elettorali. Il 10 febbraio, entrato nel calendario delle ricorrenze civili come Giorno del Ricordo, rischia di diventare non un'occasione di approfondimento ma un contrappeso alla precedente Giornata della Memoria (27 gennaio) ribadendo ulteriori spaccature tra presunti "buoni" e presunti "cattivi". 

Un segno di speranza però c'è ed è ubicato a Gorizia in piazza della Transalpina, davanti alla vecchia stazione ferroviaria un tempo dominata dalla stella rossa e recintata dalla barriera in muratura, ferro e filo spinato. Lì, in quello spazio che fu diviso, oggi non esistono più muri ma solo una pietra d'inciampo per ricordare ed elaborare assieme. E proprio l'assegnazione alle due entità isontine, l'italiana Gorizia e la slovena Nova Gorica, del ruolo di capitale europea della Cultura per il 2025 è un messaggio di pace. Perché archiviare decenni di sospetti, incomprensioni, odio e morte è possibile per costruire un domani comune.

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