Attacco al cuore dello Stato

"Sono le 10 meno 10, siamo appena arrivati sul luogo dove è avvenuto l'assalto [...] ecco la macchina con i corpi degli agenti [...] coperti da un telo [...] quattro morti più un ferito mi dice un collega". La voce di Paolo Frajese, giornalista RAI, tradisce l'emozione del momento mentre accompagna la telecamera che riprende scene quasi incredibili nel pieno centro di Roma. Il servizio, realizzato in fretta e montato a tempo di record, arriva nella sede della televisione di Stato mezz'ora dopo, giusto per accompagnare la messa in onda dell'edizione straordinaria del telegiornale del mattino. Sono le 10:30 circa quando dagli studi di via Teulada Bruno Vespa interrompe le trasmissioni della rete ammiraglia per annunciare al Paese la notizia scioccante: l'onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, è stato rapito e la sua scorta è stata sterminata.

Quel 16 marzo 1978 segna uno spartiacque nella vita della ancora giovane e fragile Repubblica. Da mesi Moro, giurista raffinato e sottile oltre che politico assai esperto, lavorava pazientemente ad un accordo storico che avrebbe permesso la partecipazione diretta del PCI, il maggiore partito comunista dell'Europa occidentale, al governo. Un fatto epocale, giacché dopo le elezioni del 1948 lo stesso PCI era stato costretto all'opposizione in nome di una fedeltà stretta all'URSS. I fatti di Praga del 1968 avevano determinato un primo, poderoso strappo tra i dirigenti italiani ed il PCUS favorendo possibili aperture da parte dei centristi dopo i positivi esperimenti di centro-sinistra ad inizio anni '60 e, nonostante la continua opposizione delle forze più conservatrici e l'aperta diffidenza degli ambienti atlantisti, Moro era riuscito a convincere i colleghi di partito da un lato ed i comunisti dall'altro a lavorare assieme per il bene del Paese. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro deve recarsi in Parlamento per il voto di fiducia al governo presieduto da Giulio Andreotti che doveva veder collaborare le due formazioni politiche che negli ultimi anni avevano raccolto il maggior consenso popolare tanto da essere separate ormai da un'esigua differenza di voti.

Sono le 8:45 quando il campanello di casa Moro in via del Forte Trionfale suona. "Buongiorno Presidente, la stiamo aspettando": al citofono è Oreste Leonardi detto Judo, 52enne maresciallo dei Carabinieri. Per Moro, Leonardi è più di un semplice caposcorta, è quasi un amico. Si conoscono da anni, da quando Judo ha cominciato ad essere l'ombra del politico democristiano ma non solo: quando Moro è da solo in casa, Leonardi veglia su di lui, risponde al telefono, gli cucina qualcosa. Di Leonardi, Moro si fida ciecamente. Il maresciallo non è solo ovviamente, con lui ci sono l'appuntato Domenico Ricci e tre agenti di PS con due vetture prive di contrassegni che compongono la scorta. Tempo una decina di minuti, l'onorevole scende con due borse contenenti documenti politici, appunti, libri, prove d'esame dei suoi studenti all'università e si accomoda sui sedili posteriori della Fiat 130; al volante c'è Ricci, al suo fianco il caposcorta. Sull'altra vettura, un'Alfetta, prendono posto il 24enne Giulio Rivera, il vicebrigadiere Francesco Zizzi (30 anni) e l'agente Raffaele Iozzino, coetaneo di Rivera. Le due auto partono a velocità sostenuta ma non eccessiva, dirette a Montecitorio. Non arriveranno mai a destinazione.

Il piccolo corteo piega a sinistra ed imbocca via Pieve di Cadore, dopo un chilometro circa altra deviazione a destra per entrare in via Mario Fani che è deserta a quell'ora, specie nel tratto che incrocia via Stresa, proveniente dalla Camilluccia: l'unico bar nei dintorni è chiuso, vittima di un fallimento avvenuto qualche mese prima; il venditore ambulante di piante e fiori non c'è, qualcuno la notte precedente ha squarciato con una lama tutti e quattro i pneumatici del suo furgoncino ("Una ragazzata di qualche balordo o la vendetta di un concorrente", verbalizza la mattina stessa ai Carabinieri, ignaro di quel che sta accadendo). All'imbocco di via Fani le due vetture trovano una Fiat 128 familiare con targa del corpo diplomatico che procede a velocità da codice ma che all'altezza dell'incrocio con via Stresa frena bruscamente senza la 130 riesca ad evitare l'impatto. E' il segnale, parte l'agguato: dalla familiare scendono due uomini vestiti in tuta Alitalia che brandiscono armi automatiche, altri quattro con la divisa della compagnia di bandiera spuntano mitra in pugno dalla siepe davanti al bar abbandonato. Si scatena l'inferno sulla scorta: Leonardi, che è il più esperto, è il primo obiettivo e muore sul colpo, trafitto dai proiettili che bucano il parabrezza. Ricci al suo fianco è colpito a morte da un'altra gragnuola mentre cerca disperatamente di ingranare la retromarcia e di sfuggire all'agguato. Gli uomini sull'Alfetta sono ugualmente sorpresi con Rivera che è freddato immediatamente e Zizzi che è colpito da un'altra scarica che gli risulterà fatale dopo una breve ma intensa agonia. L'unico a tentare una reazione è Iozzino che impugna la Beretta ed esce dalla portiera sparando due colpi: il primo manca il bersaglio di un pelo, l'altro di trenta metri perché una sventagliata di mitra lo sbatte sull'asfalto in una pozza di sangue. Mentre una staffetta in moto blocca la strada intimando a chi si affaccia alla finestra o prova ad accorrere di non avvicinarsi, il commando di killer estrae Aldo Moro incolume dalla 130 assieme alle sue borse, lo carica di peso su una 132 di colore blu e scappa a tutta velocità sparendo nel nulla.

Quello che è un vero attacco al cuore dello Stato si conferma nella rivendicazione che arriva dopo poche ore ed è firmata dalle Brigate Rosse. L'operazione è stata messa a punto dal capo militare dell'organizzazione terroristica, la primula rossa Mario Moretti che dopo l'arresto di Curcio e Franceschini ha intimato una decisa svolta all'azione delle BR. C'è Curcio alla guida dell'auto targata CD rubata qualche giorno prima; con lui ci sono dei fedelissimi come Valerio Morucci e Prospero Gallinari, evaso poco tempo prima dal carcere di Treviso, oltre a Raffaele Fiore e Franco Bonisoli; da Genova è arrivato un vero duro, l'uomo più pericoloso delle BR, Riccardo Dura: quando i suoi compagni incontrano delle difficoltà nella sparatoria (armi che si inceppano, Iozzino che esce e tenta una reazione) interviene lui sparando in maniera chirurgica e letale. Del gruppo fanno parte anche due donne, Barbara Balzerani che in sella ad una moto Honda blocca la strada alle spalle impedendo a chiunque di avvicinarsi, ed Adriana Faranda. In totale le Brigate Rosse hanno scatenato tutto il loro potenziale con un notevole dispiegamento di risorse umane e materiali. Il loro intento è chiaro: far fallire il compromesso, impedire l'ingresso del PCI al governo e dichiarare guerra allo Stato.

L'agguato mortale di via Fani rasenta la perfezione e la preparazione militare. Di più: agli inquirenti che accorrono sul posto ricorda un episodio pressoché identico avvenuto sei mesi prima a Colonia quando la Rote Armée Fraktion aveva rapito il presidente della Confindustria tedesca Hanns-Martin Schleyer con la stessa tecnica, bloccando a sorpresa la strada e massacrando la scorta. C'è un dettaglio poi che ancora oggi non trova chiara spiegazione, la presenza a pochi passi dalla zona del massacro, in via Stresa, di Camillo Guglielmi. Chi è Guglielmi? Colonnello dei Carabinieri, è uno specialista di guerriglia nonché istruttore NATO e Stay Behind a Capo Marrargiu, quindi un esperto di tecniche d'assalto. Guglielmi quella mattina è in borghese, osserva a distanza di sicurezza l'azione dei brigatisti e non interviene ma si fa identificare dalle Forze dell'Ordine che accorrono poco dopo. Per giustificare la sua presenza afferma di essere stato invitato a colazione o pranzo dal collega colonnello D'Ambrosio che abita proprio in via Stresa il quale conferma di aver ricevuto la visita di Guglielmi ma di non averlo mai invitato a casa propria, tantomeno per un pranzo che risulterebbe assai inconsueto a quell'ora della mattina. Guglielmi morirà qualche anno dopo portando con sé nella tomba quello ed altri segreti legati alla rete Gladio che in quegli anni per la stragrande maggioranza degli italiani è un qualcosa di ignoto.

Da quel 16 marzo inizierà il periodo più buio e difficile per la fragile democrazia del Belpaese. Dalle loro basi nelle periferie della Capitale Moretti e compagni recapiteranno i loro farneticanti comunicati zeppi di retorica, di richieste assurde, di ultimatum, di disumanità accompagnandoli con le immancabili Polaroid dell'ostaggio e con le lettere rivolte da questi ai propri cari ed ai colleghi di partito. Lo Stato si dimostrerà diviso e quasi impotente nell'abbozzare una reazione, incerto tra la via della trattativa propugnata da alcuni e l'opzione della fermezza, del rifiuto del dialogo. Seguiranno quasi due mesi di snervante confronto a distanza punteggiato di episodi oscuri, dalla scoperta assai poco casuale del covo di via Gradoli al falso comunicato numero 7, quello del Lago della Duchessa. L'epilogo arriverà solo il successivo 9 maggio con la telefonata dal professor Franco Tritto da parte di un sedicente "professor Nicolai" per annunciare la fine del braccio di ferro e la consegna del cadavere di Aldo Moro, avvolto in una coperta all'interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, tra la sede del PCI e quella della DC. L'ennesimo, lugubre messaggio di una vicenda i cui oscuri contorni ancora oggi non sono del tutto chiariti.

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