La grande fuga dal Due

Che sia per antica toponomastica, per aver ereditato le mura da ex conventi o per convenzione lessicale, spesso le carceri italiane si identificano spesso e volentieri con nomi religiosi. C'è Regina Coeli, c'è Santa Bona, c'è Sant'Agostino, c'è San Michele, c'è San Daniele, c'è San Lazzaro. E c'è ovviamente San Vittore, quasi un'istituzione a Milano tanto che il suo numero civico (il 2 di piazza Filangeri, "al dù" in dialetto) è entrato nel gergo comune dei criminali locali per indicare appunto la casa circondariale e, per esteso, un soggiorno a spese del contribuente per il malavitoso tratto in arresto. Per i suoi cancelli, le corsie, i passeggi, le celle sono passati personaggi di ogni tipo, dai detenuti politici al regicida Gaetano Bresci, dai partigiani agli ebrei in attesa di deportazione durante l'ultimo conflitto, sino ai mafiosi ed ai terroristi. Ma il nome di San Vittore resta legato ad uno dei re della mala milanese, l'uomo che tentò una clamorosa e rocambolesca evasione. Per la stampa è semplicemente "il bel René", nomignolo (detestato) che accompagna la sua fama di seduttore pienamente giustificata dal codazzo di donne che se ne invaghiscono, a volte anche a dispetto di rapporti coniugali consolidati. Per l'anagrafe e l'ufficio matricola di tutti e 36 gli istituti di pena che lo hanno ospitato è semplicemente Renato Vallanzasca Costantini, capo riconosciuto della banda della Comasina, il nemico pubblico numero uno.

Vallanzasca conosce San Vittore, la galera milanese è stata la sua prima casa con le inferriate quando nel 1972, ad appena 22 anni d'età, la Squadra Mobile di Milano lo arresta. Nell'ambiente il giovane criminale si è già costruito una nomea di rapinatore freddo, calcolatore, estremamente determinato, con all'attivo diversi colpi a banche, supermercati e furgoni portavalori che gli hanno fruttato un bel bottino oltre a qualche inimicizia. Si dice per lungo tempo che l'arresto operato dai poliziotti di Achille Serra non sia una casualità, che si sia trattato di un tradimento o di una manovra da parte di Francis Turatello, l'altro boss della mala meneghina, per levare di mezzo un rivale sin troppo spregiudicato. Che sia realtà o leggenda poco importa, giacché sin da quando varca per la prima volta i cancelli di piazza Filangeri Vallanzasca ha in mente un solo obiettivo: l'evasione. I primi tentativi sono infruttuosi così cambia tattica divenendo il classico detenuto indesiderabile: risse, rivolte, aggressioni ne determinano il trasferimento da un carcere all'altro finché l'intuizione di iniettarsi urina nelle vene e di ingoiare uova marce non gli provoca l'epatite con annesso trasferimento ad un ospedale da cui è più semplice scappare: niente mura, niente barriere e solo una guardia da corrompere, dopo quattro anni Vallanzasca è di nuovo libero.

Tornato in circolazione, il capo della Comasina rimette insieme il suo gruppo e torna a spargere il terrore un po' ovunque. Dopo tante rapine la banda punta al salto di qualità seguendo il filone in voga negli anni '70, quello dei sequestri di persona che vede già impegnati mafia, Anonima Sarda, Clan dei Marsigliesi. In particolare il rapimento di Emanuela Trapani, figlia di un facoltoso imprenditore milanese, frutta la cifra all'epoca clamorosa di un miliardo di lire. Ma Renato non si accontenta, vorrebbe sfidare direttamente lo Stato al punto da organizzare una rapina persino all'esattoria centrale milanese, in piazza Vetra. Purtroppo per lui, nel corso di uno dei sopralluoghi propedeutici alcuni poliziotti riconoscono un paio dei suoi complici e nella sparatoria che segue la banda registra il suo primo morto, Mario Carluccio. Un altro bandito, Tonino Furiato, muore il 6 febbraio 1977 quando ad un posto di blocco della Polizia nei pressi del casello autostradale di Dalmine Vallanzasca spara di nuovo contro le divise: sul terreno, oltre al suo complice, restano anche due agenti mentre il boss è gravemente ferito ad una gamba tanto da richiedere un viaggio in notturna verso Roma per chiedere asilo oltre che per contattare un medico che possa curarlo. Una soffiata ai Carabinieri - si dice da parte dei Marsigliesi, amici di Turatello - lo conduce nuovamente dietro le sbarre. E proprio a San Vittore Vallanzasca ritrova il suo rivale di sempre con cui dopo tanti aspri confronti sigla una incredibile tregua: il 14 luglio 1979 il bel René convola a nozze con Giuliana Brusa, una delle giovani ammiratrici che lo inondano di lettere d'amore, e come testimone e compare d'anelli ha addirittura Albert Bergamelli e Francis Turatello. Il matrimonio pare sancire una svolta non solo nel mondo della mala, dove l'alleanza Vallanzasca-Turatello smorza gli entusiasmi di chi vorrebbe prenderne il posto, ma anche nella vita del malavitoso della Comasina.

Vallanzasca invece non ha mai riposto l'intenzione di evadere, d'altronde sa già che per i morti di Dalmine e per altri cadaveri disseminati lungo il suo cammino la pena è l'ergastolo. Il 28 aprile 1980 Renato Vallanzasca è in attesa dell'ora d'aria per attivare il suo ambizioso piano di fuga, una evasione in grande stile dal carcere milanese. Non da solo, però: in quella polveriera che è San Vittore, il malavitoso ha convinto non solo il fido Antonio Colia ma anche altri criminali ed un terrorista di primo piano, Corrado Alunni, ex brigatista e poi leader delle Formazioni Comuniste Combattenti. La pianificazione è stata minuziosa, nei giorni precedenti sfruttando le grosse disponibilità economiche personali Vallanzasca è riuscito a far introdurre nella sua cella tre pistole, procurate da una guardia penitenziaria corrotta e nascoste dietro le piastrelle del bagno e dentro i materassi delle brande, oltre a tre coltelli a serramanico. Quando i secondini aprono le celle per condurre i detenuti in cortile, Vallanzasca chiede di uscire per ultimo con la scusa di dover servire il caffè al brigadiere di turno in guardina, Romano Saccoccio: appena entrato nel suo ufficio, il bandito sfodera il revolver e disarma il sottufficiale che diviene il primo di una lista di ostaggi. Con l'aiuto di Colia e degli altri, Vallanzasca cattura anche le altre guardie presenti lungo i passeggi e chiama a raccolta i compagni d'evasione ricordando loro il piano: spogliate le guardie catturate (a parte Saccoccio) delle uniformi, i detenuti dovranno rivestirsi e seguire con ordine il duo Colia-Vallanzasca che li anticiperà, con il brigadiere ostaggio nel mezzo, lasciando aperte le varie porte d'accesso ai settori sino alla doppia carraia; da lì si tratterà solo di disarmare i due agenti di guardia e poi uscire alla spicciolata, cercando di non farsi notare, per poi dileguarsi nelle vie di Milano.


Il piano pare riuscire alla perfezione, tanto che persino un avvocato a colloquio con un giudice nell'androne del carcere evita di dare l'allarme ma distoglie lo sguardo quando Renato, vestito in maniera formale e quasi elegante, gli passa a pochi metri con passo felpato. Alla carraia è di piantone un corpulento napoletano, disarmato: "Rena', tengo famiglia, non sparare". Dopo aver ordinato all'agente di inginocchiarsi faccia al muro, Vallanzasca apre il portone e con calma esce. Ma fuori lo attendono due sgradite sorprese: la prima è rappresentata dalla scorta del magistrato, due pattuglie di Carabinieri che stanno amabilmente chiacchierando in attesa del ritorno del funzionario cui fanno da angeli custodi; la seconda sono alcuni colpi sordi di pistola che arrivano dall'interno di San Vittore da cui non sta uscendo più nessuno. Vallanzasca potrebbe fuggire, d'altronde i militari non l'hanno riconosciuto e dopo aver udito anche loro gli spari gli consigliano di mettersi al riparo, ma nella sua carriera criminale si è sempre vantato di non aver abbandonato amici e complici. Così, incurante della possibilità di dileguarsi, il bandito torna indietro facendosi scoprire: "Prendete gli ostaggi! - urla agli altri detenuti - Presto, uscite!". Lui stesso ritrova il piantone partenopeo e decide di usarlo come scudo umano mentre Carabinieri da un lato e guardie penitenziarie dall'altro sparano all'impazzata. Il primo a fare le spese della sparatoria è uno degli evasi, Antonio Rossi, colpito da due proiettili mentre cerca di scappare nei vicini giardini del Beccaria; Alunni segue il bandito della Comasina che nel frattempo ha mollato l'ostaggio, inciampato sui sampietrini. Il terrorista corre in parallelo al malvivente lungo via Vico ma commette l'errore di voler passare tra due auto parcheggiate per attraversare la strada: un proiettile lo centra allo stomaco e lo scaraventa a terra, in una pozza di sangue. Renato anche stavolta non ce la fa a mollare il compare, si piega su di lui: "Dai Corrado, alzati, manca poco". Invece un colpo arriva anche a Vallanzasca, una pistolettata di rimbalzo che lo colpisce alla parte alta della fronte facendolo sbattere contro un muro. In pochi attimi poliziotti e carabinieri gli sono addosso: i primi vorrebbero massacrarlo per vendicare i colleghi uccisi negli anni precedenti ma un militare si mette in mezzo, spiana la mitraglietta ed evita il linciaggio. La grande fuga da San Vittore è terminata, mentre un'ambulanza porta i feriti (Vallanzasca compreso) al Niguarda, si fa la conta: all'appello mancano in otto, anche se Colia si arrenderà nel pomeriggio dopo aver preso in ostaggio una donna nel proprio appartamento e Attimonelli verrà ripreso qualche ora dopo, riducendo il conto degli evasi a sei detenuti.

Ripresisi dalle ferite, Alunni e Vallanzasca torneranno dietro le sbarre. Il terrorista si pentirà sette anni dopo, nel 1987, ottenendo dopo un biennio la semilibertà e la possibilità di lavorare di giorno al di fuori del carcere. Vallanzasca invece diventerà un detenuto ancor più problematico, capeggiando la rivolta di Ariano Irpino del 1981 nel corso della quale ucciderà brutalmente Massimo Loi, un ex complice che aveva scelto la strada della dissociazione per rifarsi una vita. Nel 1987 durante un trasferimento in Sardegna il bel René riuscirà di nuovo a fuggire, approfittando dell'ingenuità dei cinque carabinieri di scorta; la sua fuga durerà tre settimane prima di essere catturato a Grado, in provincia di Gorizia. Un ultimo tentativo di evasione arriverà nel 1995 prima dell'ennesimo trasferimento, stavolta nel supercarcere di Voghera. Da allora Renato Vallanzasca ha provato la strada della grazia presidenziale, la cui domanda è stata presentata dalla madre venendo però respinta. Nel 2010 gli sarà riconosciuto il beneficio del lavoro diurno esterno ma collezionando al contempo segnalazioni al Tribunale per violazione delle norme ed addirittura un processo per direttissima a causa di un tentativo di taccheggio in un supermercato. Più volte i suoi legali hanno provato a convincere i giudici a concedere la liberazione condizionale usufruendo della libertà vigilata ma i plurimi tentativi di fuga, i tanti reati, lo sprezzo delle leggi e la convinzione che non vi sia mai stato un autentico ravvedimento ha condotto i giudici a rigettare ogni istanza in tal senso ed anche per questo oggi Renato Vallanzasca, all'alba dei 71 anni, è uno degli ergastolani più anziani d'Italia.

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