L'ultima sortita
"The bigger, the better", dicono gli inglesi: un proverbio che nel nostro Paese è tradotto come "più grande è, meglio è". Purtroppo come tutti i detti popolari anche questo motto conosce dei limiti nelle applicazioni reali, sporadiche o quotidiane che sia. E se gli antichi Romani ricordavano come fosse meglio sovrabbondare ("melius est abundare quam deficere"), si può sempre controbattere che non sempre la grande quantità possa apportare dei vantaggi. Anzi, in diversi casi l'esagerazione si traduce solo in spreco di energie, di tempo e di mezzi, depauperando risorse e sbagliando scelte strategiche. Gli ingegneri e gli storici navali a tal proposito citano volentieri l'esempio dei giapponesi e della classe "Yamato", colossi del mare realizzati a caro prezzo e secondo una concezione bellica sorpassata. Magnifici gioielli che mai risultarono utili impiegando tutta la loro forza e la cui fine, ingloriosa, ha fatto definitivamente calare il sipario su una intera concezione accademica di guerra navale.
Nel Paese del Sol Levante il nome Yamato ha qualcosa di evocativo, quasi mitologico. Fiumi, prefetture, città, popolazioni, persino personaggi letterari ed un meteorite: Yamato (letteralmente "grande armonia") vuol dire molto, se si pensa che la provincia omonima fu luogo di residenza della corte imperiale al punto da designare col proprio appellativo l'intero Giappone. Ed è con il nome Yamato che negli anni '30 i tecnici navali nipponici designano un nuovo ambizioso progetto, quello di una classe di supercorazzate monocalibro, mostri marini da oltre 70mila tonnellate destinati a proiettare lo straripante imperialismo giapponese sugli oceani. Sono gli anni della conquista della Manciuria, della politica espansionistica, del concepimento della sfera di influenza dell'Impero e del desiderio sempre più evidente di sfidare il decadente dominio britannico e l'emergente forza statunitense. Consci dell'impossibilità per la cantieristica nazionale di rivaleggiare con la potenza economica americana, i progettisti giapponesi immaginano delle navi così grandi e potenti da poter ingaggiare avversari più numerosi ma meno dotate quanto a stazza ed armamento. Il progetto "Yamato" prevede quattro unità, tutte armate con cannoni principali da 460mm, un calibro mai adottato prima su nessuna nave da battaglia moderna: abbastanza per poter demolire a distanze ragguardevoli le corazze di numerosi vascelli nemici. Lo sviluppo richiede anni al pari della costruzione che risucchia risorse: una delle unità viene cancellata a costruzione appena iniziata, con lo scafo smantellato sugli scali del cantiere; delle altre tre, la prima ad entrare in servizio è la eponima "Yamato" seguita qualche mese dopo dalla gemella "Musashi". Le "Yamato" sono bellissime e terribili, incutono timore alla vista. Nella propaganda giapponese assurgono ad un ruolo particolare, testimoniano nei fatti la possanza dell'Impero ed appaiono invincibili, inaffondabili. Tuttavia ciò non risponde a realtà, visto che la "Musashi" dimostra la sua vulnerabilità all'emergente dominio aereo sui mari simboleggiato dall'aviazione imbarcata: nel corso della battaglia di Leyte la supercorazzata spara i suoi primi colpi con i grossi calibri senza però infliggere danni di rilievo e viene affondata da ondate di bombardieri in picchiata ed aerosiluranti lanciati dalle portaerei americane con la perdita di oltre mille vite umane. La terza nave della classe, la "Shinano", è stata convertita in portaerei dopo la disfatta di Midway ma non è ancora completata né collaudata quando viene sorpresa in navigazione di trasferimento da un sommergibile che la cola a picco con i suoi siluri. Nella primavera del 1945 resta la "Yamato", ammiraglia della flotta combinata, a difendere l'orgoglio della Marina nipponica ormai ridotta ai minimi termini. Per i giapponesi la guerra iniziata con baldanza a Pearl Harbor si è tramutata anno dopo anno in una lotta in difesa di ogni atollo, ogni scoglio. La combattività non difetta ai sudditi dell'imperatore che nulla possono però contro la soverchiante forza tecnologica americana rappresentata da armi sempre migliori, navi nuove e reparti via via rinforzati. Al Sol Levante resta solo il fanatismo come propellente bellico tanto che da un po' di tempo si è elaborata la teoria degli attacchi suicidi: non ci sono soltanto i celeberrimi kamikaze, i piloti di aerei imbottiti di esplosivo che si lanciano sulle navi alleate come bombe plananti; la Marina ha elaborato i kaiten, i siluri a guida umana, mentre l'Esercito ricorre agli "attacchi banzai", assalti alla baionetta sino all'ultimo uomo anche a munizioni esaurite. L'obiettivo è uno solo, rallentare il più possibile l'avanzata americana e rendere un vero e proprio inferno ogni tentativo degli Alleati di mettere piede sul territorio sovrano giapponese. Quando ad inizio aprile del 1945 i Marines iniziano l'invasione di Okinawa, ultima isola al di fuori dell'arcipelago nazionale in mano ai soldati dell'imperatore, è chiaro che l'invasione dell'Hokkaido è imminente.La Marina imperiale come detto è prossima al collasso. Perse le preziose portaerei, sacrificate invano a Leyte tanto le flotte degli incrociatori quanto la maggior parte delle corazzate, quel poco che resta è radunato per prepararsi all'estrema difesa nazionale. A tale scopo sono adibite le vecchie "Nagato" e "Haruna", entrambe danneggiate ma ancora utilizzabili come batterie galleggianti; la "Yamato", ultima grande nave integra rimasta, è destinata ad una missione suicida denominata in codice Operazione Ten-Go. La supercorazzata viene equipaggiata con il maggior numero di munizioni possibili e con il carburante necessario per raggiungere Okinawa dove si dovrà arenare in acque poco profonde e combattere sino all'estremo sacrificio distruggendo quante più navi americane potrà, attirando su di sé l'attenzione del nemico per agevolare il compito degli aerei kamikaze che punteranno alle portaerei. Sarà un viaggio di sola andata per la regina della flotta e per la sua esigua scorta composta dall'incrociatore leggero "Yahagi" e da otto cacciatorpediniere. La speranza del comando della Marina è riposta nel fatto che la "Yamato" possa eludere i ricognitori americani e, grazie alle sue ottime doti di velocità, rispondere con efficacia ad eventuali attacchi degli aerosiluranti. La copertura aerea infatti rappresenta l'unico tallone d'Achille dell'Operazione Ten-Go che rappresenta l'ultima possibilità per le forze nipponiche di contrastare l'invasione.
L'ammiraglio Ito, ideatore del piano, si imbarca sulla "Yamato" nella mattina del 6 aprile mentre nel porto gli addetti alla logistica cercano di offrire una chance di salvezza ai marinai raddoppiando le scorte di carburante per le navi che effettueranno la sortita. Nel pomeriggio la squadra navale esce da Tokuyama con la prua su rotta Sud-Sudovest in direzione Okinawa ma viene presto avvistata da due sommergibili americani di vedetta che informano il comando Alleato. Ito dispone lo "Yahagi" in punta alla formazione con gli otto caccia ad anello attorno all'ammiraglia per prevenire attacchi subacquei; l'alto ufficiale tuttavia scruta il cielo ben sapendo che da lì possono giungere i maggiori pericoli. E ha ragione, visto che alle 11:30 del 7 aprile due ricognitori avvistano la formazione e rientrano indisturbati a far rapporto, senza che i colpi dell'artiglieria giapponese possano colpirli. Di fronte ad Okinawa l'ammiraglio Spruance dispone di due Task Force a protezione della flotta da sbarco, una composta da sei corazzate di recente costruzione e l'altra da ben otto portaerei di squadra. Spruance vuole affidare la missione alle corazzate, giudicate spendibili in un confronto a cannonate, ma il suo ordine è anticipato dal viceammiraglio Marc A. Mitscher, comandante delle portaerei, che ordina il lancio dei 400 velivoli a bordo tra caccia, bombardieri in picchiata ed aerosiluranti.Sono le 12:32 quando a bordo della "Yamato" viene suonato l'allarme generale per attacco aereo. Il cielo è coperto da una nuvola informe che porta con sé distruzione e morte cui la supercorazzata e la sua scorta replicano sparando con tutte le armi leggere di bordo. Il piano degli aviatori americani è semplice e prevede che i caccia ed i bombardieri in picchiata attirino il fuoco antiaereo per alleviare la pressione dai Dauntless, i siluranti che devono procedere in parallelo sull'acqua per la corsa d'attacco; il lato prediletto è quello di dritta per favorire un ribaltamento della nave sfruttando la spinta del suo stesso peso. La prima unità a subire la furia dei velivoli americani è però lo "Yahagi" che, colpito da un siluro in sala macchine, si ritrova bloccato in mezzo al mare: incapace di difendersi, colerà a picco alle 14, appena un'ora e mezza dopo l'inizio del bombardamento. La "Yamato" manovra in ogni modo, cerca di evitare bombe e siluri ma incassa tre ordigni che provocano i primi danni, pur non influendo sulla ancora elevata velocità del vascello.
Alle 13:20 si manifesta la seconda ondata, seguita meno mezz'ora dopo dalla terza. Sono quindici le bombe che piovono sui ponti e sulle sovrastrutture mentre otto siluri vanno a bersaglio: stavolta la nave accusa il colpo, la direzione di tiro è danneggiata, manca l'elettricità per manovrare le artiglierie, cannonieri e mitraglieri devono passare ai comandi idraulici o manuali per sparare disperatamente contro quegli aerei che continuano a oscurare il sole. A complicare ulteriormente il quadro generale è l'allagamento di alcuni compartimenti per bilanciare la nave che, avendo incassato i siluri quasi tutti sul lato sinistro, sta iniziando a sbandare: per evitare l'affondamento la "Yamato" sacrifica una sala macchine ed il locale caldaie, provocando la morte per allagamento di numerosi suoi macchinisti e riducendo la velocità a 10 nodi (meno di 20 km/h). La supercorazzata è ormai un relitto alla deriva quando un siluro blocca definitivamente il timone impedendo qualunque correzione di rotta: Ito se ne accorge e cancella la missione suicida ordinando ai sopravvissuti di abbandonare la nave. Alle 14:05 la fine della "Yamato" è segnata, il capovolgimento è imminente ed è velocizzato dal distacco delle tre torri dei cannoni principali il cui peso è talmente elevato da farle scardinare dalle barbette accelerando la catastrofe. Passano pochi minuti prima che l'enorme bastimento mostri le eliche al cielo per poi inabissarsi con una enorme esplosione generata dalle fiamme di un incendio a bordo che ha raggiunto la santabarbara. Una colossale nube a fungo si innalza sul mare facendo scomparire per sempre quello che fu l'orgoglio della Marina imperiale e condannando al contempo la guarnigione di Okinawa alla sconfitta. L'Operazione Ten-Go si chiude con un completo fallimento e la morte di 4mila uomini compreso Seiichi Ito che ha preferito affondare con la "Yamato" piuttosto che rientrare in patria da sconfitto; sul fronte opposto la US Navy registra la perdita di appena dieci aerei e la morte in azione di 12 aviatori.
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