Attentato ai Carabinieri

Esistono numeri di telefono corti, facili da ricordare, legati alle emergenze. Basta dire 118 per identificare il pronto soccorso del Suem, o il 115 per associarlo ai Vigili del Fuoco. Il 112 è da sempre legato all'intervento dei Carabinieri, quella forza militare che in tempo di pace svolge funzioni di polizia territoriale, specie nei piccoli paesi periferici. Ci si recava in una cabina telefonica, senza gettone o monete o scheda, e si componeva il 112: una voce dall'altro lato rispondeva immediatamente "Carabinieri. Dica". E' un modo per sentirsi anche sicuri, per poter contare sempre su qualcuno nei momenti di difficoltà. Ma talvolta può significare anche altro. Non per chi chiama, ma per chi riceve. Può addirittura essere una trappola mortale.

La sera del 31 maggio 1972 al centralino di Gorizia arriva una chiamata. Non c'è da stupirsi: siamo al confine orientale e gli uomini in servizio sanno che ci si può attendere di tutto. "Carabinieri. Dica", risponde il centralinista. Il chiamante parla con un finto accento locale, imita il dialetto isontino: "Senta, la x'è una machina co do busi sul parabrezza, strada da Poggio Terza Armata a Savogna, località Peteano. La x'è una Fiat 500". Clic. La telefonata finisce qui. Il telefonista annota, chiama la stazione di Sagrado (Peteano è una frazione di questo Comune) e quella di Gradisca, le più vicine, oltre ad avvertire il comando provinciale. Un'auto con due fori nel parabrezza potrebbe essere nulla o potrebbe essere qualcosa di serio. Magari è una vettura rubata utilizzata per una rapina o per del contrabbando. Sul posto arriva un'autopattuglia da Gradisca e rinviene la vettura: effettivamente è una Fiat 500, bianca, targa GO 45902, rubata qualche giorno prima. Ignoti l'hanno lasciata in una stradina di campagna, laterale della statale. L'appuntato capomacchina chiama un ufficiale, il tenente Tagliari, che arriva sul posto con un brigadiere ed un altro carabiniere, in attesa di una terza gazzella che dovrebbe arrivare da Gorizia. Tagliari è sospettoso, non capisce perché non ci siano denunce di sparatorie al confine o nei pressi di banche o negozi per giustificare quei due fori di proiettile nel parabrezza. Perché i fori ci sono, l'auto è quella descritta dal telefonista. Quindi, cosa c'è sotto? Il tenente Tagliari teme che ci sia di mezzo una questione di confine, forse c'è del materiale di contrabbando a bordo. Ordina quindi al brigadiere Antonio Ferraro ed ai carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni di ispezionare la vettura. Le serrature sono sbloccate ma nell'abitacolo non c'è nulla. Il cofano motore è invece bloccato. Ferraro, Poveromo e Dongiovanni cercano di forzarlo. Improvvisamente qualcosa scatta, un lampo accecante, un'esplosione. I tre carabinieri vengono scaraventati a metri di distanza dalla deflagrazione della bomba che li uccide sul colpo, Tagliari e l'appuntato Mango restano anche loro a terra gravemente feriti.

Chi è stato? Perché? Nei primi giorni, non lo sa nessuno. Si ipotizza una vendetta della malavita, forse dei contrabbandieri. Poi qualcuno all'interno dell'Arma fa filtrare un'informativa che conduce a Trento, alla neonata Facoltà di Sociologia, l'incubatrice delle nascenti Brigate Rosse. Ma è una falsa pista, Curcio e soci non hanno mai nemmeno teorizzato l'utilizzo dell'esplosivo. Giovanni Ventura, accusato per la strage di Piazza Fontana, tira in ballo un neofascista friulano, Ivano Boccaccio, che muore il 6 ottobre in seguito ad un fallito dirottamento aereo: la pista è buona ma dall'alto giunge ordine di lasciar perdere e ci si concentra su un gruppo di sei ragazzi del posto che, a detta del colonnello Dino Mingarelli, avrebbero voluto vendicarsi dei Carabinieri per alcune liti passate, verbali staccati per guida in stato d'ebbrezza ed altre stupidaggini. Il movente è debole, le prove non ci sono, i giudici assolvono i giovani imputati che denunciano Mingarelli per calunnia. Il tempo passa ma nessuno riesce a capire chi sia stato e perché.

Il raggio di sole, quello definitivo, arriva nel 1984. C'è un uomo, un 35enne, si chiama Vincenzo Vinciguerra. E' agli arresti in carcere per terrorismo, si è costituito spontaneamente cinque anni prima, dopo una latitanza in Spagna, Cile ed Argentina. "Sono stato io", confessa. La strage di Peteano ha un esecutore. Ora occorre capire perché Vinciguerra abbia assassinato tre servitori dello Stato, dove abbia preso l'esplosivo, chi lo abbia aiutato e soprattutto per quale motivo abbia atteso 12 lunghi anni per vuotare il sacco.

E' un tipo strano, Vincenzo Vinciguerra. Lo si definirebbe quasi un lupo solitario. Lui preferisce l'etichetta di "soldato politico". Nasce a Catania ma con la famiglia si sposta a Udine già nell'infanzia. Nel dicembre 1969 è parte della cellula di Ordine Nuovo e viene fermato alla stazione ferroviaria friulana in compagnia di alcuni camerati: hanno preparato striscioni e cartelli con l'ascia bipenne simbolo del movimento neofascista da esibire in una manifestazione nazionale a Roma, organizzata subito dopo la bomba di Piazza Fontana per chiedere l'istituzione di un governo forte, per spingere verso la svolta autoritaria. Un dirigente della PolFer lo riconosce: "Vinciguerra, ma che fate? Dove andate? Tornatevene a casa, così conciati non vi facciamo partire. E poi a Roma non ci sono manifestazioni autorizzate, stiamo aspettando che il Governo si pronunci, non fate casino anche voi". Il dirigente non si domanda chi abbia avvertito quei ragazzi e li abbia convinti di imbarcarsi su un treno ed andare nella Capitale a protestare. "Le solite teste calde", pensa. Ma è qualcosa di peggio.

Vinciguerra è uno dei "soldati" di punta dell'eversione nera che sta montando come una marea dal Nordest e che si prepara a sommergere l'Italia a suon di bombe. Ma Vinciguerra è anche una mente pensante e capisce che qualcosa non va: per lui lo Stato si abbatte combattendo, non venendo a patti con pezzi delle istituzioni. Non gli piacciono certe collusioni, non gli piace vedere gli spioni del SID ed i Carabinieri adoperarsi per coprire le malefatte dei camerati. Così con il complice Carlo Cicuttini prepara l'agguato mortale ai militari: prelevano del plastico C-4 da un deposito segreto di Gladio nella zona delle cave di Aurisina, poi confezionano la bomba, rubano la Fiat 500 e organizzano il tranello. Il telefonista è Cicuttini, Vinciguerra definisce gli ultimi dettagli prima dell'arrivo delle divise. Quando l'attentato viene insabbiato, Vinciguerra ne resta disgustato. Con Cicuttini e Boccaccio prova il dirottamento aereo a Ronchi dei Legionari: il terzo uomo ci rimette le penne, lui ed il telefonista di Peteano riescono a fuggire ed entrano in clandestinità. Anche all'interno del mondo del neofascismo eversivo ci si accorge che Vinciguerra è un tipo particolare: bravo con le armi ma troppo riottoso. Gli propongono una vendetta, lanciare una bomba a mano contro il democristiano Mariano Rumor che dovrà visitare la Questura di Milano - Rumor era Ministro degli Interni all'epoca di Piazza Fontana e rifiutò di avvalorare la richiesta di alcuni colleghi di dichiarare lo stato d'emergenza. Vinciguerra fiuta la trappola ("Qualcuno mi avrebbe sparato subito dopo lo scoppio") e passa la mano, espatriando in Spagna per sfuggire con Cicuttini all'arresto disposto per i fatti di Ronchi. Nel Paese franchista Vinciguerra rinsalda i legami con Yves Guillou, alias Ralf Guérin Serac, capo di Aginter Press, e con Stefano "er Caccola" Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale. In Spagna Cicuttini si sottopone ad un intervento alle corde vocali, necessario per modificarne la voce. I soldi arrivano da Giorgio Almirante, capo dell'MSI di cui Cicuttini risulta ancora essere tesserato: se i magistrati dovessero scoprire che il telefonista di Peteano è un dirigente della Fiamma sarebbe un bel problema per Almirante. Disgustato da queste continue coperture, Vinciguerra se ne va in Cile, poi in Argentina ma capisce che la sua battaglia è persa. Nel febbraio 1979 torna a Roma e si costituisce. Cinque anni dopo svela il suo segreto ai magistrati: "Quella bomba l'ho messa io".

Vinciguerra va a processo. Parla, risponde alle domande, ascolta le requisitorie. Il verdetto è univoco: ergastolo. Lo accetta, nemmeno fa ricorso in appello, e decide di scontare la pena senza chiedere sconti o facilitazioni. Da quel momento in poi, senza mai pentirsi, risponde alle domande dei magistrati che indagano sugli anni di piombo, sulla strategia della tensione. Parla di Gladio, di Ordine Nuovo, dei legami internazionali, di Rumor, di Delfo Zorzi, di Carlo Digilio, della NATO. Vinciguerra racconta quel che sa perché stanco di essere manovrato ma senza rinnegare quel che fece. E Peteano? "Volevo dare un segnale di ribellione, far capire che non volevo essere coperto da nessuno - dichiara - Quando però si sono attivati i meccanismi di protezione interna ho capito che non c'era margine per la lotta rivoluzionaria". Una lotta assurda che lascia sul terreno i corpi di tre uomini in divisa. 

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