Addio, Mozart

Un'autostrada tedesca, sotto un diluvio torrenziale, può diventare una trappola mortale. Basta poco, è sufficiente che nel tardo pomeriggio di un giorno maledetto l'acquaplaning faccia slittare una vettura e che un autoarticolato per evitare l'impatto finisca col rimorchio di traverso occupando tre corsie e rendendo impossibile il transito. In quel momento sopraggiunge un altro veicolo, una Volkswagen Golf guidata da una giovane donna ungherese diretta a Monaco di Baviera: lanciata a 180 chilometri orari, l'auto non può frenare con la dovuta prontezza e nella sbandata seguita al primo impatto col guardrail finisce contro il TIR distruggendosi. Lo scontro è terribile, un clangore di lamiere che si contorcono e che strappano una giovane vita. Ma non è quella dell'autista che se la cava con alcune serie ferite, né quella della passeggera sul sedile posteriore, una turca che esce dall'incidente menomata ma viva. No: in quello schianto assurdo muore un campione, un esempio, un simbolo di riscatto ed araldo di una nazione. Il 7 giugno 1993, lungo una maledetta striscia d'asfalto, scompare Drazen Petrovic.

Lo avevano chiamato in tanti modi diversi, "Diavolo di Sibenik" o "Mozart dei canestri", ma per lui cambiava poco o nulla. Drazen, figlio di una famiglia sportiva della Dalmazia, era semplicemente un innamorato della pallacanestro che aveva la fortuna di lavorare divertendosi. Era sempre stato così, da quando il suo talento abbacinante era emerso nell'adolescenza obbligando l'allenatore Faruk Kulenovic del KK Sibenik ad inserirlo in pianta stabile nel roster. A nemmeno 18 anni Drazen era già in campo a Padova, nella finale di Coppa Korac del 1982 tra la formazione croata ed il Limoges, mettendo a referto una prova da 19 punti e 10 assist in una amara sconfitta per la sua squadra. Nel 1983 Drazen, poco più che maggiorenne, aveva rifiutato la chiamata del college americano di Notre Dame per espletare il servizio militare obbligatorio con la JNA e successivamente approdare al Cibona Zagabria dove già giocava suo fratello maggiore Aza: scelta felicissima, visto che sotto la sapiente guida di Mirko Novosel il talento era infine sbocciato in tutto il suo splendore fino a trascinare il club della capitale croata ad un doppio titolo europeo. Le prestazioni in continuo crescendo di Drazen, capace di segnare 40 punti in partita senza quasi faticare e con giocate al limite del possibile, avevano incuriosito gli scout europei della NBA, tanto che al Draft del 1986 Portland aveva investito la chiamata al terzo giro su quel ragazzo il cui nome era completamente sconosciuto all'epoca oltre Atlantico. Nel frattempo Drazen cercava nuovi stimoli, nuove sfide, collezionando trofei personali e per il Cibona mentre il Real Madrid faceva una corte serrata tanto a lui quanto alla Federazione jugoslava perché gli desse il permesso per l'espatrio. A 24 anni Drazen aveva cambiato casacca, vestendo il bianco del Real dopo aver condotto la Nazionale jugoslava all'argento olimpico a Seoul: il passaggio a Madrid con un quadriennale da oltre un milione di dollari a stagione aveva fatto scalpore ma il matrimonio sarebbe durato poco. Giusto il tempo di recitare in una sfida tra pistoleri del parquet, la finale di Coppa delle Coppe ad Atene del 14 marzo 1989 contro la Snaidero Caserta di Oscar Schmidt. Il confronto tra Mozart e Mao Santa, i due più grandi tiratori in Europa, vide prevalere il croato 62-44, col Real che si impone al supplementare per 117-113 al termine di una delle più belle partite di basket di sempre. 

L'Europa non aveva più nulla da offrire al Diavolo di Sibenik mentre le sirene dell'NBA risuonavano sempre più forti. Nell'estate del 1989 Drazen aveva varcato l'oceano approdando a Portland: "Cerco nuove sfide, voglio dimostrare di poter giocare da protagonista anche in NBA", aveva dichiarato al momento della firma del contratto con i Trail Blazers, mentre la stampa americana lo riteneva un guascone un po' ottimista per non dire folle. Eppure Drazen impiegò davvero poco a zittire gli scettici, arrivando in finale per il titolo nel suo primo anno in canotta rossonera nonostante un ruolo marginale dovuto anche all'ostracismo dello spogliatoio capitanato da Clyde Drexler: The Glide non gradiva possibili intrusioni nella sua leadership di squadra e nelle gerarchie ed aveva utilizzato la sua ampia influenza per ridurre il ruolo di quell'europeo esordiente. Delle sofferenze patite a Portland, Drazen si era rifatto in Nazionale portando la Jugoslavia ad un risultato storico con la vittoria del Mondiale del 1990 a Buenos Aires, sancendo dopo un lungo inseguimento il ruolo da protagonista della scuola slava. Ma qualcosa era andato storto in Argentina: al termine della finale vinta 92-75 sull'URSS Drazen aveva visto Vlade Divac, suo amico fraterno di etnia serba, compiere un gesto che lo aveva turbato. A bordo campo si erano assiepati dei ragazzi, argentini figli di emigrati croati, che esibivano la bandiera del proprio popolo ed al fischio finale erano entrati in campo per festeggiare. Divac aveva strappato di mano ai quei ragazzi la bandiera, gettandola a terra: a scuola gli avevano insegnato che quel vessillo era simbolo dello Stato fantoccio ustascia, i fascisti alleati della Germania nella Seconda Guerra Mondiale, nemici da disprezzare, ed effettivamente una buona parte della comunità croata in Argentina discendeva da esuli e da ex ustascia scappati in Sudamerica. Quel gesto violento in un clima di festa aveva turbato Drazen al punto da minare l'amicizia con Vlade, da quel momento i due non si sarebbero più parlati. Era l'anticamera della crisi che avrebbe cancellato per sempre l'utopia federale di Tito.

Il 1991 avrebbe segnato lo spartiacque per Drazen. Convinto di lasciare la prigione dorata di Portland, aveva deciso di accettare la proposta degli affatto irresistibili New Jersey Nets in cui però avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Ma prima ancora avrebbe assistito al crollo della sua Jugoslavia nel peggiore dei modi, osservando lo sfacelo in televisione dopo aver chiesto ed ottenuto di non essere convocato. La sera del 29 giugno 1991 al PalaEur di Roma era in programma la finale degli Europei tra i padroni di casa dell'Italia e la favoritissima Nazionale multietnica, campione uscente, ma lo sloveno Jure Zdovc rivelava ai compagni di aver ricevuto una telefonata da Lubiana dove, in seguito alla proclamazione dell'indipendenza della Repubblica del Triglav, l'esercito federale e la milizia locale si stavano confrontando armi in pugno. Quella sera l'ultima Jugoslavia vinse il suo ultimo trofeo ma sarebbe stata una vittoria carica di tristezza e che sarebbe stata seguita soltanto da anni di lutti e distruzioni.

Drazen era comunque concentrato sulla sua carriera e sui Nets e di lì a poco avrebbe zittito gli ultimi scettici. Uno di questi era Vernon Maxwell, guardia dei Detroit Pistons: "Deve ancora nascere un europeo bianco capace di farmi il culo su un campo da basket", aveva dichiarato subito prima di affrontare New Jersey; in risposta, Petrovic gli aveva stampato 44 punti in faccia rispedendo al mittente qualunque pregiudizio basato sulle sue origini o sul colore della propria pelle. Con la nuova Nazionale croata assieme a Kukoc, Drazen era riuscito a conquistare la medaglia d'argento a Barcellona nelle Olimpiadi del Dream Team, legittimando ancor di più la propria posizione di campione. Ed alla fine della stagione 1992/93 aveva ormai maturato la decisione di lasciare i Nets, forte di una media personale da 24 punti a sera, per approdare in un squadra da titolo. L'estate successiva avrebbe rappresentato il momento decisivo, a nemmeno 29 anni Drazen era pronto per l'ultimo balzo in avanti.

Restava qualcosa, però, Restava la preoccupazione per i famigliari e gli amici in Croazia, per la guerra che non voleva saperne di cessare. La sua Nazionale chiamava e lui non si negava mai, anche a prezzo di qualche sacrificio. Ad inizio giugno del 1993 la Croazia, priva di un campo di gioco abbastanza sicuro e costretta a chiedere ospitalità, aveva giocato una partita di qualificazione agli Europei in Germania, contro la Polonia, in cui Petrovic aveva segnato il suo abituale trentello di punti. Invece di rientrare in aereo con i compagni, Drazen aveva raccolto l'invito della fidanzata, l'ungherese Klara Szalantzy, a passare un paio di giorni assieme a Monaco di Baviera. Un momento di relax in mezzo a tanta tensione. Però Drazen era davvero stanco, aveva bisogno di riposo, così aveva ceduto il volante della Golf a Klara mentre sul sedile posteriore si era accomodata un'amica della fidanzata, Hilal Edebal, giocatrice turca di basket, e si era appisolato sedendo davanti, a fianco della sua ragazza, senza indossare la cintura di sicurezza. Lungo quella dannata striscia d'asfalto pioveva a secchiate, nel pomeriggio di quel 7 giugno 1993 ed il destino si materializzò in quel maledetto camion di traverso, con lo schianto mortale. Nella tasca di Drazen, morto senza riaprire gli occhi, l'amico Neven Spahjia accorso per il riconoscimento della salma trovò un foglietto con le offerte formulate da Panathinaikos, Nets e Knicks per la successiva stagione. Proposte che il Mozart dei canestri non aveva fatto in tempo a valutare.

La morte di Drazen Petrovic lasciò nello sgomento il mondo, undici mesi prima del dramma di Ayrton Senna ad Imola. La tragica scomparsa di un mito vivente aveva gettato tutti nella costernazione, la Croazia proclamò il lutto nazionale, al funerale i compagni di squadra della Nazionale portarono il feretro a spalla, in lacrime. Sembrava che con Drazen fosse morto anche il giovane Paese che lottava per la propria indipendenza. Vlade Divac si rese conto dell'assurdità delle distanze che avevano separato due amici fraterni e che avevano spezzato l'idillio di una nazione multietnica in cui le tante spigolature erano state a lungo smussate dallo sport. Anni dopo, concluso il periodo bellico, Vlade si sarebbe infine riconciliato con Drazen visitando la famiglia e portando dei fiori sulla tomba del suo vecchio compagno, ricordando quei giorni eroici in cui l'entusiasmo della scuola jugoslava aveva portato un messaggio diverso in un mondo bipolare, di successo e di condivisione, di sport ma anche di politica. E forse è questa la più grande vittoria di Drazen Petrovic, aver condotto fazioni in attrito a trovare una soluzione pacifica in suo nome. 

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