Battaglia al pastificio

La pasta è un alimento base della dieta mediterranea e della cucina regionale italiana. Non devono stupire la nascita e lo sviluppo nel corso dei decenni di numerosi opifici alimentari legati a grandi brand del settore dedicati alla produzione di questo alimento. Non solo entro i confini nazionali: l'export ha portato spaghetti ed affini sulle tavole di tutto il mondo e ha accompagnato le varie tappe dell'emigrazione dal Belpaese. Persino nella sporadica avventura coloniale la pasta ha seguito gli italiani emigrati, sotto forma prima di cibo abituale ed anche di business economico. Alcune di quelle fabbriche alimentari sono sopravvissute alla decolonizzazione, altre invece sono state abbandonate o ridotte in macerie conservando però il tratto distintivo di pastificio.

A Mogadiscio il 2 luglio 1993 è una calda giornata estiva, di calma apparente vicino ad uno dei tanti segni del passato coloniale italiano, l'ex stabilimento alimentare Barilla. Nella capitale somala la guerra civile tra i generali delle milizie, scoppiata nel 1991 dopo la deposizione del dittatore Siad Barre, ha generato un conflitto spietato tra bande armate ed una crisi umanitaria di proporzioni inimmaginabili. Per porre un freno alla tragedia che sta costando centinaia di migliaia di vite umane, piegate dalla fame e dalla sete, l'ONU invia una forza di pace con l'obiettivo di far terminare i conflitti tra le parti e garantire la distribuzione di generi alimentari e di medicine. I contingenti sono frazionati, privi di un comando unico, ma con un coordinamento basato nel vecchio Stadium dove stanziano le truppe messe a disposizione dal Pakistan e nell'aeroporto requisito dagli USA.

La presenza dei caschi blu ONU non ferma completamente le atrocità. Mohammed Farrah Aidid, il più astuto tra i signori della guerra, sfida apertamente le Nazioni Unite. Appena il contingente americano dell'operazione "Restore Hope" si ritira nel maggio 1993, Aidid massacra 25 pachistani all'interno di Radio Mogadiscio, emittente utilizzata dallo stesso generale per fomentare la rivolta contro i caschi blu e da questi perquisita in un'operazione di polizia: è necessario l'intervento italiano per liberare i pachistani rimasti, asserragliati nell'edificio. Il fatto provoca sdegno in tutto il mondo, tanto che gli Stati Uniti ottengono dall'ONU un secondo mandato per porsi a capo di un'altra coalizione che non ha soltanto lo scopo di fermare la carestia ma di arrestare i responsabili del genocidio in corso.

Il contingente italiano che prende parte alla missione, nome in codice "Ibis II", comprende al suo interno i paracadutisti della "Folgore" e del "Col Moschin", i carristi ed i bersaglieri della "Ariete", alcuni squadroni di cavalleria blindata, un reparto AVES con i nuovi elicotteri cacciacarri Mangusta e conseguente logistica. Non è la prima missione all'estero per i militari italiani né la prima situazione pericolosa da affrontare: l'UNIFIL in Libano ha regalato preziosi insegnamenti. Al comando della missione c'è un irpino dal cognome sardo: è il generale Bruno Loi, ha 52 anni, da un biennio è stato promosso al comando della "Folgore" dopo una lunga esperienza da addetto militare all'estero e con un passaggio a Beirut con i parà nel curriculum. E' il giusto connubio per i compiti della missione, cioè diplomazia ma anche capacità d'azione.

Loi come detto ha già dovuto chiedere ai suoi uomini di intervenire per salvare le penne ai pachistani, rendendo al contempo il contingente italiano un bersaglio. Se si pensa che gli americani snobbano carabinieri, parà e bersaglieri perché ritenuti troppo accomodanti nei confronti dei miliziani, si intuisce la difficoltà crescente della missione "Ibis II". Le pattuglie italiane girano per Mogadiscio senza poter contare granché sull'aiuto degli alleati - solo i pachistani, in debito di riconoscenza, collaborano - ed il rischio di un agguato non viene sottovalutato anche se non si sa quando, come, dove ed in che modo il nemico, sempre invisibile, colpirà.

Il 2 luglio 1993 una colonna denominata Bravo lascia la vecchia accademia militare somala di Balad, un complesso costruito in epoca coloniale divenuto negli anni di Barre il luogo d'addestramento sia di Aidid che degli altri ufficiali locali. Al contempo un altro contingente denominato Alfa parte dal Porto Nuovo: i due squadroni devono rastrellare un'ampia area tra due checkpoint, uno denominato Ferro e l'altro sito nei pressi del vecchio pastificio Barilla, alla ricerca di depositi di armi, requisire tutto il materiale bellico che trovano e rientrare. Una routine. 

Alfa completa la missione secondo manuale ed inverte la marcia per tornare al Porto Nuovo. Quando giunge davanti al checkpoint Pasta invece Bravo incontra un intoppo non segnalato, i somali hanno innalzato delle barricate posizionando anche dei container in mezzo alla strada. E' una trappola: dalle postazioni tra gli edifici sventrati dal conflitto gli irregolari sparano con i lanciarazzi anticarro RPG di produzione sovietica contro i blindati "Camillino", copia nazionale degli M113 statunitensi. Il parà Pasquale Baccaro viene colpito da un razzo ad una gamba e muore dilaniato, altri suoi due colleghi vengono gravemente feriti. Il comando richiama sul posto la colonna Alfa che può contare sui vecchi ma efficienti M60 Patton e sulle nuove blindo anticarro Centauro ma arriva l'ordine di non sparare con le armi pesanti per non fare una strage di civili visto che i miliziani usano donne e bambini come scudi umani. Sporgendosi dalle torrette per usare le mitragliatrici cadono il sergente Paolicchi ed il sottotenente Millevoi finché non si decide di rompere gli indugi, i carri bombardano i container ed i Mangusta colpiscono dall'alto mettendo in fuga gli assalitori dopo un assedio parso interminabile ed infernale. Il contingente italiano torna alle proprie basi e fa la conta: tre deceduti, due feriti gravissimi (il sottotenente Paglia resterà tetraplegico per il resto della vita) ed altri 20 ricoverati negli ospedali da campo. Incerte le perdite tra i somali, si parla di una settantina di morti ed un centinaio di feriti ma le cifre ufficiali non si conosceranno mai.

Perché quel bagno di sangue? Si azzarda l'ipotesi che la colonna Bravo sia giunta troppo vicina al rifugio segreto di Aidid, forse all'interno delle rovine del vecchio stabilimento Barilla, tanto da indurre il generale a lasciare mano libera ai suoi uomini per evitare di essere catturato. Qualcun altro ritiene che sempre nel pastificio fosse stoccato buona parte dell'arsenale dei signori della guerra: in tal caso i miliziani avrebbero voluto impedire che il sequestro ponesse fine per un po' di tempo alla capacità di combattimento delle fazioni in lotta. Si parla addirittura di una imboscata ordita appositamente per impartire una lezione agli italiani, intromessisi un mese prima nella questione della radio, ma nessuna congettura riceve precisi riscontri.

Ibis II continuerà ancora per quasi un anno, denunciando altre vittime tra i militari a causa degli agguati al porto o nei vicoli della città. Muoiono due giovani parà, un ufficiale dell'intelligence, una crocerossina ed anche tre civili, i giornalisti Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Marcello Palmisano - alcuni di questi vengono uccisi in circostanze poco chiare. Sul contingente italiano, sempre più chiacchierato, si agitano voci malevole di connivenza, persino di loschi traffici con i signori della guerra. Gli americani non si fidano più e quando ad ottobre due Black Hawk vengono abbattuti nel pieno del Mercato Bakarah, roccaforte di Aidid, il generale Garrison al comando della Delta Force e dei Ranger delle Forze di Sicurezza preferisce allertare la Decima Divisione di Montagna ed il contingente pachistano piuttosto di chiedere l'intervento degli italiani del Porto Nuovo per salvare i suoi ragazzi. Bruno Loi conduce a casa i suoi ragazzi senza sapere che un'altra tragedia lo attende: il 15 luglio 1994 un cadetto dell'Accademia di Modena muore durante un lancio paracadutistico ed il generale ne deve rispondere per negligenza venendo condannato ad un anno di reclusione.

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