Il golpe e l'ictus

Clima pesante, sguardi sospettosi, persino urla: è insolito che al Quirinale non si rispettino protocollo ed etichetta, specie in incontri che vedono il Capo dello Stato conferire con il Capo del Governo ed il Ministro agli Affari Esteri. Eppure nel tardo pomeriggio del 7 agosto 1964 avviene l'impensabile proprio nel corso di un ricevimento che di formale ha ben poco e che vede a confronto personalità troppo diverse per poter davvero andare d'accordo. "Come osi rivolgerti così al Presidente? Come ti permetti...", inveisce Antonio Segni rivolgendosi a Giuseppe Saragat; immediatamente dopo aver pronunciato quelle parole il Presidente della Repubblica ammutolisce, sbianca in volto, crolla a terra. Accorgendosi del dramma Aldo Moro, Presidente del Consiglio in carica, esce di corsa dal salone e chiama commessi e valletti, invoca aiuto: "Chiamate un medico, presto!", chiede il leader democristiano. Antonio Segni è stato appena colpito da trombosi cerebrale, una malattia i cui segni erano stati notati ma sottovalutati nei giorni precedenti e che pone fine tanto alla carriera politica del politico sardo quanto ai progetti sovversivi da lui avallati.

E' un'estate molto calda, quella del 1964. Non per questioni meteorologiche quanto per quel sinistro "tintinnar di sciabole" che si ode dei corridoi romani. Il 25 giugno il primo Governo Moro cade dopo un voto contrario all'aumento dei fondi alle scuole private: da quel momento in avanti la situazione pare precipitare verso il baratro per la democrazia italiana, stretta tra interessi di palazzo, spinte reazionarie da Confindustria, idee sin troppo conservatrici dello stesso Segni e la nostalgia reazionaria di buona parte delle Forze Armate. Interprete diretto di quelle settimane difficili e spauracchio dell'intero mondo politico è un alto ufficiale, il viso duro sottolineato dai baffi e dall'eterno monocolo all'occhio destro, un ex partigiano che ha già fatto parlare abbondantemente di sé. Un uomo di nome Giovanni De Lorenzo.

Monarchico, figlio di un ufficiale d'artiglieria, Giovanni De Lorenzo ha costruito il proprio curriculum militare prima in Ucraina, al seguito dell'ARMIR di cui è vicecapo dell'ufficio operazioni sino al rimpatrio, poi come componente del CLN per conto del quale gioca un ruolo cruciale nella Roma occupata dai nazisti in cui si impegna come ufficiale di spionaggio. Il suo passato di partigiano è un prezioso lasciapassare nel passaggio dal Regno alla Repubblica e gli consente nel 1955 di diventare, con la greca di generale di Brigata, direttore del SIFAR, il Servizio Informazioni delle Forze Armate che ha preso il posto del vecchio e sgangherato SIM. Al SIFAR, De Lorenzo si dimostra abile tessitore di trame tanto da intrattenere stretti rapporti al contempo col Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e con i boiardi di Stato tra cui Enrico Mattei, senza dimenticare i buoni rapporti mantenuti con i socialisti dai tempi della lotta partigiana. Forte di appoggi politici inattaccabili, De Lorenzo lancia un'operazione di schedatura della società italiana: in sette anni gli spioni del SIFAR raccolgono dossier su uomini politici, imprenditori, generali, ammiragli, giornalisti, dirigenti, leader sindacali, sacerdoti, docenti universitari, studenti. Dentro quei fascicoli ci sono informazioni di vita quotidiana, abitudini, manie, contatti, rubriche, a volte persino vizi o debolezze di tanti cittadini, illustri e non: una difesa per lo Stato, secondo De Lorenzo, ma una violazione dei diritti elementari e persino una possibile arma di ricatto per il Parlamento che con apposita commissione decreta la fine della schedatura e la distruzione del materiale raccolto. 

Passato incolume dalla tempesta dei dossier (destinata comunque a scoppiare a mezzo stampa alcuni anni dopo) e potendo contare sui consueti appoggi in Parlamento, nell'ottobre 1962 De Lorenzo passa dalla scrivania del SIFAR a quella di Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri. E' un incarico di ulteriore prestigio e responsabilità, tenendo presente che la Benemerita non è solo una forza di ordine pubblico presente in ogni angolo del Paese ma costituisce in tutto e per tutto un reparto militare. E proprio in quest'ottica De Lorenzo imprime una nuova accelerazione, riuscendo a convincere il neo-eletto Capo dello Stato Antonio Segni ad autorizzare una decisa modernizzazione dell'Arma, compresa la nascita tanto di un battaglione paracadutista (il "Tuscania") quanto della celeberrima XI Brigata Meccanizzata, una sorta di corpo pretoriano dotato di mezzi corazzati, compreso un battaglione di carri Patton M48. La novità è presentata in grande stile il 14 giugno 1964 ad una parata organizzata all'aeroporto dell'Urbe con il Presidente Segni, visibilmente emozionato, in prima fila sul palco d'onore. Nell'occasione la stampa, italiana e straniera, si dimostra assai scettica sull'effettiva utilità della Brigata Meccanizzata: "Scusi generale - chiede un cronista - ma ci vuol dire che adesso i Carabinieri andranno a caccia dei ladri con i carri armati?". De Lorenzo rimane impassibile e non risponde, anche se la salace battuta desta preoccupazione negli ambienti che fino a quel momento hanno appoggiato l'alto ufficiale.

Quel che i politici non possono sapere è che nelle settimane precedenti De Lorenzo ha alimentato la paranoia anticomunista di Segni paventandogli innumerevoli pericoli di un possibile colpo di coda da parte del PCI, o dei sindacati o di fantomatiche quinte colonne sotterranee fedeli a Mosca ed a Belgrado. Segni, che in precedenza ha dimostrato estrema freddezza nei confronti delle amministrazioni democratiche USA (Kennedy prima, Johnson poi) e che palesa in più occasioni intenzioni reazionarie, appoggia i suggerimenti del generale e lo autorizza a redigere un piano di pronto intervento in caso di minaccia credibile per la Repubblica. Nel giro di pochi giorni De Lorenzo convoca i comandanti delle tre Divisioni dei Carabinieri distribuite sul territorio, la "Pastrengo" di Milano, la "Podgora" di Roma e la "Ogaden" di Napoli, affidando loro il compito di redigere il piano operativo di intervento che prenderà il nome di Piano Solo - questo perché solamente i Carabinieri saranno chiamati ad agire, lasciando nel limbo le altre Forze Armate. I piani, battuti a macchina dagli aiutanti maggiori dei tre comandanti (tra questi Romolo Dalla Chiesa, fratello del più noto Carlo Alberto), prevedono l'occupazione della RAI di via Teulada a Roma, il presidio delle aree vitali del Paese e l'arresto di oltre 700 persone (i cosiddetti "enucleandi") definite pericolose per l'ordine pubblico e che successivamente verranno deportate in un campo militare in Sardegna. Il 10 maggio 1964 De Lorenzo presenta la bozza del piano a Segni, che lo accetta, mentre con una scusa di natura logistica dopo la parata del 14 giugno la Brigata Meccanizzata, i carabinieri paracadutisti e gli allievi sottufficiali dell'Arma restano accasermati nei pressi di Roma. Il pericolo di un colpo di Stato è sempre più reale.

Alla caduta del Governo Moro, Segni reagisce in maniera decisa. Il suo primo obiettivo è archiviare immediatamente in centro-sinistra moroteo spostando a destra l'asse dell'Esecutivo, conferendo l'incarico al Presidente del Senato Cesare Merzagora affinché possa comporre un governo di tecnici gradito tanto alla parte più conservatrice della DC quanto ai maggiorenti di Confindustria ed ai militari. Aldo Moro capisce che la partita è rischiosa, che il gioco c'è persino la democrazia dell'Italia, ancora giovane e per questo molto fragile. Il Paese appena quattro anni prima ha reagito in maniera energica di fronte al tentativo di Tambroni di un governo spostato a destra e il rischio paventato è di una guerra civile o di una dittatura militare. Quando Segni, nel corso delle consultazioni, si fa trovare al Quirinale in compagnia dello stesso De Lorenzo, il "tintinnio di sciabole" diviene sin troppo rumoroso. Nel giro di poche, concitate settimane Moro convince il segretario socialista Nenni a trovare un accordo per la nascita di un nuovo centro-sinistra, bloccando tanto le aspirazioni di Merzagora quanto i progetti golpisti di De Lorenzo.

Segni non reagisce bene alle manovre di Moro. Ai primi di agosto il Presidente è inquieto, in Parlamento c'è chi lo accusa apertamente di essersi arreso a Moro, di essere un debole. Merzagora si è sfilato, De Lorenzo ha disattivato il Piano Solo informando i suoi subalterni che la minaccia non si è concretizzata, un altro vecchio partigiano come Randolfo Pacciardi gli ha tolto ulteriori appoggi. L'unica carta in mano a Segni è la pressione psicologica su Moro, che il 6 agosto incassa la fiducia anche alla Camera dopo averla ottenuta in Senato e può varare il suo secondo Esecutivo. Dal Quirinale piovono richieste di scuse chieste a gran voce ai socialisti che nei mesi precedenti con il loro quotidiano, "Avanti!", hanno accusato il Presidente di scorrettezze istituzionali. A prima vista Nenni non intende cedere un millimetro, Moro se ne infischia e Segni incassa un altro colpo che contribuisce a minarne la salute. Il 7 agosto è convocata una riunione con Moro e Saragat, Ministro degli Esteri: Segni si gioca un'altra carta di pressione, le candidature per la carica di ambasciatore a Mosca, incarico da cui è escluso il favorito dello stesso politico sardo (il suo consigliere Federico Sensi) ma vede presente nelle liste Giovanni Saragat, figlio del titolare della Farnesina. Quel pomeriggio al Quirinale volano parole grosse tra il Presidente ed il Ministro: "Io rispetto la Repubblica - incalza Segni, tremante di rabbia - Non approfitto della Repubblica, io!". A Saragat l'accusa di nepotismo fa saltare la mosca al naso, decide di non subire più e di contrattaccare con tutto l'arsenale a disposizione: "Tu? Proprio tu rispetteresti la Repubblica? - ribatte - E i pericoli che ci hai fatto correre nella crisi di governo, per le tue trame con i Carabinieri?". Segni non si controlla più, un tremito gli prende le mani, urla più forte, si sente offeso nell'intimo e nella carica ricoperta. Ma pronuncia poche parole, prima di crollare al suolo vittima dell'ictus che lo travolge.

Soccorso in tutta fretta, il Presidente riceve cure d'urgenza. Gli iniettano degli anticoagulanti, lo intubano, cercano di stabilizzarne le condizioni. Segni però è privo della parola, non si muove, pare un vegetale. Moro, dopo aver chiamato i soccorsi, si chiude nel suo studio e si sfoga con il suo segretario Guerzoni; Saragat riesce appena ad informare il Consiglio dei Ministri dell'accaduto prima di svenire per la tensione. Mentre si approntano comunicati stampa di circostanza che minimizzano le condizioni dell'inquilino del Quirinale, Merzagora torna da Barcellona per assumere l'interim d'emergenza e De Lorenzo interrompe la vacanza termale a Fiuggi per rientrare a Roma. Ironia della sorte, mentre si consuma la tragedia nella redazione dell'"Avanti!" si decide di pubblicare per l'indomani, 8 agosto, un editoriale che accontenta proprio Segni e che riduce le accuse di avventurismo precedentemente formulate. Da quel colpo apoplettico Antonio Segni non si riprenderà più: il 16 agosto un prete gli impartisce l'estrema unzione, nei mesi successivi la situazione medica si stabilizzerà ma a dicembre, firmando con la sinistra, sancirà le proprie dimissioni per morire infine nel 1972. Gli succederà, non senza sorprese, proprio Saragat che riuscirà a vincere la concorrenza di Leone e di Fanfani, quest'ultimo inutilmente sponsorizzato dal SIFAR e da Eugenio Cefis, grand commis dell'ENI. De Lorenzo invece abbandonerà l'Arma per ingaggiare a distanza una lotta con il suo vecchio nemico nell'Esercito, il generale Giuseppe Aloja, tra corsi di ardimento, commesse per nuovi armamenti e riorganizzazione del SIFAR in SID. Dopo la scoperta della reale portata del dossieraggio e delle trame del Piano Solo da parte dei giornalisti Scalfari e Jannuzzi, la sua carriera militare finirà ingloriosamente con la destituzione avviando una breve parentesi parlamentare prima della morte nel 1973.

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