La collina della sete

La sete può risultare la più terribile delle piaghe. Non potersi dissetare, avvertire la secchezza della bocca e della gola, il deperimento lento e costante del corpo, tutto ciò può condurre alla pazzia. E non è inusuale che nei confronti più spietati come ad esempio negli assedi uno dei contendenti in campo utilizzi la sete come un'arma per forzare la resa. O per determinare uno sterminio e conquistare agevolmente delle posizioni.

In lingua araba, Tel al-Zaatar significa "collina del timo". Nello specifico, con questo termine si identifica una ristretta zona di Beirut Est, stretta tra i quartieri di Karantina e di Mansour, il primo a maggioranza sunnita ed il secondo abitato da maroniti. Dopo il "settembre nero" del 1970 ed il massacro con conseguente espulsione dalla Giordania, l'OLP trasforma Tel al-Zaatar in un enorme campo profughi occupando l'area e sfrattando con la forza numerosi abitanti locali. Nel perimetro dell'enorme campo si stipano in circa 5mila persone, in maggioranza civili ma con una costante presenza delle organizzazioni paramilitari che da un lato si proclamano protettori dell'area e dall'altro reclutano giovani per rimpolpare le proprie fila.

L'afflusso in massa di palestinesi mina alla base la fragile democrazia del Paese dei Cedri. La presenza massiccia di profughi altera le proporzioni confessionali che sorreggono il Patto Nazionale del 1943 e pungolano nuovamente gli appetiti politici delle forze rimaste emarginate dai grandi accordi tra maroniti, sunniti, sciiti e greco-ortodossi. Per cinque anni i civili libanesi chiedono a viva voce la rimozione del campo, specie dopo che i miliziani dell'OLP e del FPLP hanno iniziato a taglieggiare i residenti dei quartieri vicini per ottenere i fondi necessari ad alimentare la propria lotta armata contro Israele. Ma il governo libanese è debole e diviso, per lungo tempo l'esercito non interviene lasciando spadroneggiare gli ingombranti ospiti che acquistano giorno dopo giorno sempre più forza.

La situazione cambia nella primavera del 1975, quando in seguito al tentativo di assassinio del capo della Falange Pierre Gemayel un nucleo di miliziani maroniti attacca un autobus carico di palestinesi diretti proprio a Tel al-Zaatar. La guerra civile libanese infiamma in breve l'intero Paese e lo frantuma in base a zone d'influenza. Beirut ad esempio è idealmente spaccata in due: ad Est, i quartieri a maggioranza cristiana finiscono sotto il controllo della Falange, delle Tigri, dei Guardiani del Cedro; ad Ovest, palestinesi e milizie Amal (sciiti) ed i sunniti nasseriani di al-Mourabitoun; sui monti dello Chouf, infine, i drusi di Jumblatt hanno la loro tradizionale roccaforte. Tel al-Zaatar e Karantina diventano due piccoli caposaldi musulmani in una zona interamente controllata dai maroniti e dall'esercito libanese che, comandato da ufficiali cristiani, si schiera almeno inizialmente a fianco dei falangisti. Karantina cade il 18 gennaio 1976 con la morte di 1500 persone tra combattenti dell'OLP e rifugiati curdi, siriani e palestinesi; la rappresaglia di Arafat mette nel mirino Damour, cittadina cristiana che viene accerchiata e distrutta dai palestinesi e dai loro alleati drusi con fucilazioni sommarie non solo dei falangisti ma anche dei residenti disarmati. La guerra civile ormai è fuori controllo.

Dal gennaio 1976 Tel al-Zaatar è completamente isolata. Il campo ha una sola uscita praticabile, verso l'entroterra, concessa dall'esercito libanese guidato da Michel Aoun per consentire ai civili di sfollare altrove. Nulla però può entrare nel perimetro fortificato, nemmeno i carichi di medicinali che sono sequestrati ai checkpoint dai militari locali: chi sceglie di restare a Tel al-Zaatar sa che il rischio di morire per un'infezione o per un attacco febbrile può diventare più alto rispetto alla possibilità di beccarsi una pallottola in fronte. In realtà di civili che abbandonano il campo della morte ce ne sono pochi ma non per spirito di sacrificio o per patriottismo, è infatti lo stesso Yasser Arafat ad imporre ai suoi compatrioti di resistere allo stremo, a costo della vita. Dopo la disfatta in Giordania e l'isolamento subito in seno alla Lega Araba, il leader palestinese ha un disperato bisogno di riacquistare credibilità, fiducia e solidarietà, tutti elementi che possono essergli riconosciuti solo da un martirio in piena regola. Ed è esattamente questo che il capo dell'OLP ha in mente per gli occupanti di Tel al-Zaatar, una morte lenta e costante sotto gli occhi del mondo che osserva inerme la tragedia libanese.

L'assedio dura sette mesi. Sette mesi di ristrettezze, di lotta per sopravvivere, di disperazione. Attorno il perimetro le Falangi hanno schierato un migliaio di uomini armati sino ai denti, irrobustiti da un contingente delle Tigri e dall'esercito che bombarda il perimetro con l'artiglieria campale oltre che con i carri Sherman e con le blindo Panhard. All'interno ci si industria come si può, si raccoglie l'acqua piovana per integrare le riserve nelle cisterne, si tenta di scavare dei tunnel per il contrabbando, si sfidano le sentinelle maronite per cercare beni di prima necessità in brevi e non sempre fruttuose escursioni. Il 13 luglio 1976 il comandante militare della Falange, William Hawi, giunge in visita a Tel al-Zaatar con l'intenzione di ispezionare le posizioni dei suoi uomini: è proprio in compagnia di due falangisti quando verso mezzogiorno un cecchino all'interno del campo spara colpendolo ad una tempia ed uccidendolo sul colpo. Hawi, militare risoluto ma anche fine politico di lungo corso, cede il posto al più giovane dei figli di Pierre Gemayel, Bashir: altra pasta, altro temperamento, altre idee. E proprio con l'intenzione di vendicare il vecchio amico del padre, il falco delle Falangi ordina l'offensiva verso Tel al-Zaatar, cominciando con il bombardamento indiscriminato delle cisterne idriche e la chiusura delle ultime condotte. Quel luogo che portava un nome paradisiaco diviene in pochi giorni una puzzolente ed infernale fogna a cielo aperto, luogo in cui la morte cammina da una baracca all'altra mietendo vittime. Ancora una volta Arafat rifiuta gli ultimatum, non intende cedere un palmo, Tel al-Zaatar deve diventare un luogo di martirio ed anzi i mortai dell'OLP continuano a battere il perimetro colpendo non gli assedianti ma coloro i quali cercano una via di fuga. Il leader viene accontentato all'alba del 12 agosto 1976 quando le Forze Libanesi (Falange, Tigri, Brigata Marada) entrano con la forza nel campo spazzando via l'ultima resistenza e trovando una situazione da incubo, con i sopravvissuti all'assedio ridotti allo stremo dalla sete che ha condotto alla pazzia più di un profugo. Con una mossa di pessimo gusto Arafat trasforma l'ex villaggio cristiano di Damour in un nuovo campo per le "vedove di Tel al-Zaatar", vale a dire madri, mogli e figlie di chi è morto in quella collina di Beirut. Non è una bella idea, tant'è vero che quando il capo di al-Fatah mette piede a Damour sono le stesse donne palestinesi ad accoglierlo a sputi e lanci di frutta marcia e pietre, obbligandolo al dietrofront.

Tel al-Zaatar diviene un simbolo della ferocia e dell'assurdità della guerra civile libanese. La sua tragica caduta scuote l'opinione pubblica in Siria, dove il clan alawita degli Assad ha accolto l'appello del presidente libanese Franjieh di intervenire per pacificare il Paese: i siriani non riescono a perdonare al loro capo il fatto che i soldati musulmani siano rimasti a guardare mentre le milizie maronite compivano una strage di loro correligionari. Nel fronte sciita, Amal mette per la prima volta in discussione la scelta di appoggiare la Falange in chiave anti-palestinese e nel volgere di qualche mese il movimento armato di Nabih Berri cambierà schieramento. Anche tra i cristiani cominciano ad intravvedersi alcune crepe: meno di due anni dopo, ad Ehden, la Brigata Marada sarà decimata dopo il sanguinoso tentativo di rapimento di Tony Franjieh; nel luglio 1980 toccherà alle Tigri di Dany Chamoun venir colpite nel loro yacht club a Beirut Est, lasciando campo libero al sempre più spietato Bashir Gemayel, lanciato verso una inevitabile candidatura alla presidenza. Un ruolo che, però, il sanguinario comandante falangista non potrà mai davvero ricoprire. 

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