"Dov'è Bashir?"

"Amici, un nuovo Paese nascerà a giorni. Sarà un Libano forte, sicuro, indipendente. Sarò io a garantire tutte queste promesse, come nuovo presidente vi assicuro che...". La voce forte dell'oratore sul palco è sovrastata da un'esplosione fragorosa che scuote l'edificio, detriti che cadono dal soffitto, una nube di polvere che invade la sala, il pavimento che crolla parzialmente. La platea urla, è un fuggi fuggi generale dalla scena del disastro. Occorrono ore perché si riesca a far luce sull'avvenuto, anche se tutti comprendono immediatamente che la tragedia non sia stata provocata da una accidentale fuga di gas ma da un attentato dinamitardo. Ore in cui si rincorrono voci sempre più confuse sul numero delle vittime ed in cui la domanda che tutti si fanno è una sola: dov'è Bashir?

Il Bashir in questione non è una persona qualsiasi, bensì il presidente eletto ma non ancora insediato della Repubblica Libanese. Esponente di una delle famiglie più influenti della comunità maronita, stratega sottile, militare spietato, Bashir Gemayel ha coronato il sogno di papà Pierre appena pochi giorni prima, quando l'Assemblea Nazionale lo ha individuato come successore di Elias Sarkis. L'elezione non era stata certo così complessa, visto che non c'erano stati altri candidati al ruolo di presidente e che le voci dell'opposizione erano state opportunamente tacitate dopo sette anni di sanguinosa guerra civile, in realtà ancora non conclusa. Bashir Gemayel era divenuto il più giovane capo di Stato nella storia della fragilissima Repubblica in un periodo sin troppo delicato ma prometteva di utilizzare guanto e spada, diplomazia e maniere forti per risolvere la crisi aperta nel 1975 e protrattasi con lo scoppio degli scontri nelle strade tra milizie rivali, nell'invasione siriana, nella resa dei conti con i palestinesi e nel doppio intervento israeliano. Bashir sapeva che occorreva una svolta decisa alla politica interna del suo Paese e proprio puntando sul lungo stato emergenziale aveva convinto alleati ed anche alcuni avversari a votare per lui.

Figlio minore di Pierre e capo del Kataeb' dopo la morte di Hawi, ucciso da un cecchino palestinese durante l'assedio finale di Tel al-Zaatar, Bashir Gemayel era visto da buona parte dell'opinione pubblica come un capo militare più che come un politico navigato. Era stato lui a guidare la milizia armata del partito nelle prime spietate mosse contro i nemici storici della Falange, i palestinesi di Arafat e i drusi di Jumblatt, nel sabato nero del dicembre 1975 che aveva visto i primi massacri su base etnica e confessionale nella tormentata terra dei cedri. Come comandante militare aveva disposto le sue forze nella battaglia degli hotel, il lungo confronto con palestinesi e siriani nella zona che un tempo accoglieva i più lussuosi alberghi di Beirut e che era stata trasformata in terreno di guerriglia urbana a colpi di mitra e di razzi anticarro. Era stato lui, Bashir, a suggerire la costituzione di un Fronte Libanese come coalizione dei movimenti politici di estrazione maronita e greco-ortodossa in risposta alle forze progressiste radunate dal clan Jumblatt, riunendo le milizie private nelle Forze Libanesi in cui avevano trovato posto, oltre al Kataeb', anche le Tigri di Chamoun, la Brigata Marada dei Frangieh e gli estremisti dell'Ordine dei Guardiani del Cedro.

Ma Bashir non era solito accontentarsi. Ottenuta sul campo la qualifica di comandante delle Forze Libanesi, aveva dimostrato il proprio valore ottenendo successi strategici importanti, come l'intervento politico arabo per costringere la Siria a ritirarsi da Beirut o utilizzando a piacimento i rapporti con gli israeliani ora dimostrandosi loro amico, ora chiedendo alle IDF di lasciare il Paese e rifiutando ogni proposta di collaborazione. Bashir aveva anche capito per tempo di avere dei pericolosi rivali interni e aveva agito di conseguenza: Tony Frangieh, figlio dell'ex presidente Souleiman e capo della Brigata Marada, era diventato un nemico dopo che alcuni falangisti erano caduti in imboscate senza ottenere la copertura degli alleati. Il piano orchestrato dal Kataeb', un rapimento per indurre la Marada a più miti consigli e magari a confluire nella Falange, si era risolto in un bagno di sangue dopo che a Ehden gli uomini guidati da Samir Geagea avevano riversato una pioggia di fuoco sulla villetta dei Frangieh, sterminando la famiglia del delfino e buona parte della sua milizia personale. Risolta la questione con i Frangieh, si era presentato il problema della gestione dei rifornimenti israeliani ma anche del racket assicurativo a Beirut Est con il clan Chamoun, vecchio alleato dei Gemayel divenuto troppo ingombrante: dopo un summit infruttuoso a Tel Aviv, Bashir aveva deciso di passare all'azione ordinando un raid allo yacht club di Safra, base delle Tigri. In una sanguinosa domenica di luglio del 1980, una data passata alla storia come il Giorno dei Lunghi Coltelli, i soldati del Kataeb' avevano atteso che Dany Chamoun, figlio di Camille e comandante assoluto delle Tigri, lasciasse lo yacht club per poi attaccare la struttura in cui si stavano rilassando i capi della milizia rivale. In una mattinata di rara violenza 83 tra ufficiali e soldati del corpo militare dei Chamoun erano stati accoltellati, massacrati a colpi di mitra, strangolati nelle stanze d'hotel o lanciati dai balconi per poi essere finiti a revolverate in spiaggia, regolando per sempre il conto tra le famiglie maronite e inducendo le Tigri sopravvissute a chiedere il reclutamento nel Kataeb'.

L'Operazione Pace in Galilea delle IDF aveva completato il quadro di sangue in Libano. La seconda invasione israeliana, diversa da quella precedente che si era fermata al confine del fiume Litani, aveva portato il bellicoso vicino meridionale a lambire i confini della capitale. Con Israele, Bashir Gemayel era abituato a trattare ma lo faceva giocando su più tavoli, accettando le forniture mediche e di armi ma rifiutando le azioni congiunte per non mettere in imbarazzo l'Esercito libanese, composto da brigate spesso multiconfessionali ma sempre affidate ad ufficiali maroniti. L'intervento israeliano aveva comunque sgombrato il campo da uno dei contendenti più pericolosi, l'OLP, che dopo il Settembre Nero del 1970 aveva eletto il Libano a propria base operativa. La candidatura alla presidenza, sostenuta a livello internazionale da Francia e Stati Uniti che avevano inviato forze di pace a Beirut, era stata vista come un tentativo estremo di normalizzare il Paese attraverso l'imposizione di una figura forte, anche autoritaria, che riuscisse finalmente a riprendere le redini di uno Stato allo sbando. Anche per questo motivo a fine agosto del 1982 l'Assemblea Nazionale si era espressa a favore di Bashir Gemayel votandolo come nuovo presidente, con insediamento previsto quattro settimane dopo.

Nei piani del neo presidente eletto, le priorità erano due: liquidare gli ultimi campi profughi palestinesi, espellendo gli occupanti, e risolvere una volta per tutte il problema della presenza siriana, sfruttando gli israeliani per far loro appoggiare la prevista offensiva d'autunno dell'Esercito libanese contro le tre divisioni che Assad aveva posizionato nella valle della Bekaa per coprire drusi e sciiti e per tenere in scacco l'aviazione di Gerusalemme. Sistemate queste pendenze, Gemayel avrebbe poi chiesto ad Israele di abbandonare per sempre il Libano, dedicandosi infine alla resa dei conti con Walid Jumblatt, il figlio di Kemal che aveva ereditato dal padre assassinato la guida del Partito Progressista Libanese. Nelle due settimane successive alla propria elezione, Bashir Gemayel incontrò i suoi futuri ministri e si recò a colloquio con le IDF preparando con Ariel Sharon i piani di intervento nella Bekaa. In uno di questi meeting Arik Il Rosso aveva messo in guardia il giovane presidente: "Siamo stati informati che qualcuno vuole ucciderti, stai in guardia e non ti fidare di nessuno". Parole che Gemayel aveva liquidato con una scrollata di spalle, sentendosi sicuro della protezione garantita dalle Forze Libanesi.

Il 14 settembre 1982, ad appena una settimana dal previsto insediamento, Bashir Gemayel ha l'ultimo appuntamento politico nella sede della Falange, a Beirut. Si tratta di un incontro cui tiene molto, vuole spiegare il proprio programma di governo ai suoi fedelissimi e ai militanti che lo hanno sempre appoggiato. Non sa, Bashir, che un maronita lo ha tradito: Habib Shartouni, questo il suo nome, si è finto sostenitore del Kataeb' e soprattutto nei giorni precedenti ha fatto più volte visita al palazzo del quartier generale della Falange in cui, esattamente al piano superiore rispetto alla sala convegni, risiede la sorella. Potendo muoversi con relativa facilità, Shartouni ha studiato la planimetria dell'edificio e ha capito in che punto posizionare una potente carica esplosiva fornitagli dai siriani. Perché Shartouni ha deciso da tempo di tradire il proprio popolo abbracciando la causa degli Assad che sognano una Grande Siria che inglobi la "provincia ribelle" del Libano.

Alle ore 16 del 14 settembre 1982 Gemayel entra nei locali del quartier generale del Kataeb' e nello stesso istante Shartouni, uscito poco prima dalla sala convegni, telefona da un apparecchio a gettoni all'angolo della strada alla sorella: "Ho un problema all'anagrafe - le dice - Devo compilare dei moduli ma l'impiegato afferma che ho bisogno di un famigliare che confermi la mia identità. Puoi venire subito negli uffici della municipalità? Ti aspetto, è urgente". La sorella, ignara del fatto che sotto il suo letto sia stata posizionata una bomba contenente 50 kg di una miscela al plastico, esce di casa, scende le scale e prende un taxi. Dieci minuti dopo Shartouni, che in realtà non si trova all'anagrafe ma a due isolati di distanza e da un tetto osserva l'edificio obiettivo, preme il pulsante del detonatore. Segue un boato, l'esplosione, la nube di polvere che sgretola parte del palazzo e scatena il panico a Beirut Est.

"Dov'è Bashir?", chiedono i soccorritori che arrivano sul luogo della strage. Nessuno sa dare una risposta precisa e cominciano a rincorrersi le voci: è ferito ma è uscito con le proprie gambe dalla sala semidistrutta; no, è stato caricato in ambulanza e ricoverato al pronto soccorso con delle ustioni alla schiena; nemmeno, lo hanno caricato in eliambulanza e lo hanno portato a Haifa, è in gravi condizioni ma se la caverà. Per ore si scava tra le macerie mentre dagli ospedali non arriva nessuna conferma. A sera inoltrata il mistero è svelato: Bashir è morto, il suo cadavere senza volto è stato uno dei primi ad essere trasportati nella vicina chiesa che è stata adibita a obitorio improvvisato. A riconoscerlo è stato un agente israeliano che ha notato la particolare fede nuziale in oro bianco che portava all'anulare, un riconoscimento confermato dal ritrovamento nelle tasche della sua giacca di due lettere a lui indirizzate, già aperte. La conferma dell'assassinio giunge il mattino successivo per bocca di Shafik Wazzan, primo ministro della Repubblica, ed obbliga l'Assemblea Nazionale a trovare in fretta un sostituto che è individuato in Amin, fratello maggiore di Bashir, uomo di indole ben più diplomatica e più portato al dialogo che all'azione. Habib Shartouni viene arrestato due giorni dopo, inchiodato dalla testimonianza di chi lo aveva visto frequentare l'appartamento della sorella nella settimana antecedente e poi lo aveva avvistato tra i curiosi che erano accorsi sul posto dopo il massacro. Dopo aver confessato la propria responsabilità nell'attentato e l'appartenenza al Partito Nazionale Socialista Siriano di Assad, Shartouni sarà tenuto prigioniero per otto anni a Roumieh prima di essere liberato dall'esercito siriano e portato a Damasco nel 1990. Solo nel 2017 il Consiglio giudiziario libanese lo condannerà a morte in contumacia. I falangisti invece attenderanno molto poco per farsi giustizia da soli e invaderanno i campi profughi di Sabra e Shatila, rimasti senza protezione, compiendo una mattanza mentre gli israeliani spianano loro la strada con bengala illuminanti, in quello che diventerà tristemente famoso come il peggior massacro di civili dai tempi della guerra del Vietnam.

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