Gli alamari sulla pelle

Un cartello semplice, parole in vernice nera vergate su fondo bianco: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Non c'è firma ma è impossibile non accorgersi della valenza del messaggio anonimo. Perché quel cartello appare in via Isidoro Carini, nel pieno centro di Palermo, la mattina del 4 settembre 1982, nel luogo dove poche ore prima è avvenuto l'ennesimo delitto di mafia. Ma non una uccisione qualsiasi: non è stato un regolamento di conti tra famiglie rivali, né l'esecuzione di un boss della fazione perdente all'interno della seconda grande guerra di Cosa Nostra. Lì è morto un servitore dello Stato, un uomo la cui immagine significava moltissimo per tanti italiani. Un simbolo, una speranza per chi non intende piegarsi alle logiche perverse della malavita organizzata e del malaffare dei colletti bianchi. Un uomo che ha dedicato la sua vita ad un ideale di giustizia e ad una divisa, tanto da poter quasi affermare di avere gli alamari cuciti sulla pelle. Un uomo di nome Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Cuneese di nascita, erede di una solida famiglia di militare e formatosi alla Scuola Allievi Ufficiali di Complemento di Spoleto, Carlo Alberto Dalla Chiesa è un carabiniere dalla testa ai piedi. Anche più del fratello Romolo, più giovane di un anno, che lo precede nel Corpo: Carlo Alberto è risoluto, leale, sempre in prima linea anche nei momenti più difficili. Quando l'Italia si spacca in due in seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943, alla comando provinciale nel Piceno cui è destinato si confronta con i partigiani comunisti che inizialmente dubitano del suo operato e si adopera, a rischio della propria vita, per garantire che la lotta in montagna abbia i mezzi necessari a fronteggiare l'invasore nazista. Passato anche lui alla macchia, diviene in breve un ascoltato consigliere militare oltre che un uomo preziosissimo per l'esercito lealista. Non c'è da stupirsi che a guerra ultimata il 25enne Carlo Alberto passi in servizio permanente effettivo, il suo curriculum bellico è di assoluto rispetto.

Che a Dalla Chiesa piaccia agire in prima linea se ne accorgono i siciliani. L'isola diviene ben presto una seconda casa per quel piemontese così particolare, così affascinante nel suo essere attento ma umano al tempo stesso - secondo diversi osservatori Leonardo Sciascia si sarebbe ispirato a lui per il capitano Bellodi de "Il Giorno della Civetta". Il primo incarico in terra di Trinacria è a Corleone, paesello abbarbicato sulle colline abitato da pastori e braccianti. E da un medico, Michele Navarra, di cui si mormora sin troppo riguardo al relativo potere mafioso esercitato nell'area. Ad opporsi a Navarra c'è un altro reduce di guerra, un sindacalista di nome Placido Rizzotto che appoggia le rivendicazioni dei contadini e che il 10 marzo 1948 non torna più a casa. A rapirlo ed ucciderlo, gettandone i resti in una sorta di foiba alle pendici di Rocca Busambra, sono stati Vincenzo Collura e Pasquale Criscione assieme ad uno strano personaggio detto "u sciancato" a causa della malattia che lo affligge, il morbo di Pott: si tratta dell'ancora poco conosciuto Luciano Leggio, destinato ad avviare a Corleone una sanguinosa carriera criminale. Testimone del fatto è un pastorello, Giuseppe Letizia, che per lo shock patito è assalito da un febbrone e che verrà soppresso con una iniezione letale da Michele Navarra. Indagando con cura certosina, il capitano Dalla Chiesa ripercorre l'intera vicenda e provoca l'arresto di due dei responsabili del delitto, mancando però Leggio che si dà alla latitanza. Per un futuro nemico potente però, il giovane capitano si è fatto anche un amico rispettoso in Pio La Torre, sindacalista collega di Rizzotto che ha colto il valore di quell'uomo giunto dal Nord per portare giustizia.

La seconda volta in Sicilia per Dalla Chiesa arriva dopo quasi vent'anni. Divenuto colonnello dopo esperienze a Firenze, Como e Milano, gli è affidata la guida della Legione Carabinieri Sicilia, un incarico svolto sempre con grande umanità e con sommo rispetto del dovere. C'è il colonnello Dalla Chiesa alla testa dei carabinieri che nel gennaio del 1968 intervengono nel Belice per soccorrere la popolazione colpita dal terremoto. E c'è sempre il colonnello Dalla Chiesa ad indagare sull'oscura scomparsa di Mauro De Mauro, l'ambiguo cronista de "L'Ora" che è inghiottito dalla lupara bianca mentre si dipanano le losche trame dell'assassinio di Enrico Mattei e del Golpe Borghese. Al termine della prima grande guerra di mafia, è sempre Dalla Chiesa, assieme al commissario della Mobile di Palermo Boris Giuliano, a stendere il "Rapporto Albanese Giuseppe+113" sulle cosche, determinando non solo gli arresti ma le destinazioni dei boss in carceri insulari con regime detentivo duro, dall'Asinara a Linosa passando per Lampedusa. Abbastanza per diventare un nemico diretto di Cosa Nostra.

Rientrato nel continente nel 1973, Dalla Chiesa ottiene una nuova promozione e soprattutto l'incarico forse più spinoso, quello del contrasto al terrorismo. Il suo Nucleo Speciale, una formula innovativa per l'epoca che impiega ex partigiani abituati alla guerriglia e che non disdegna il ricorso ad infiltrati e pentiti, risulta in breve efficace con la cattura a Pinerolo dei capi delle Brigate Rosse, Curcio e Franceschini. I successi raccolti dal generale suscitano clamore, invidie e critiche a livello politico, tanto che in breve il Nucleo viene sciolto e Dalla Chiesa destinato ad altro incarico. Solo la recrudescenza violenta del terrorismo brigatista impone al governo una poderosa marcia indietro, dopo la crisi scatenata dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro lo Stato intende reagire e si affida a Dalla Chiesa che è dotato, non senza vibranti polemiche, di poteri straordinari. Rimessosi al lavoro con i suoi uomini, il generale ritorna ai vecchi metodi, riesce a catturare diversi pericolosi latitanti ed a convincere uno di questi, Patrizio Peci, a collaborare: è una svolta storica, la prima grande crepa nell'universo delle BR che porta nel giro di qualche anno al crollo dell'impianto brigatista. La tattica di Dalla Chiesa è un successo, l'Italia torna a respirare ed il 16 dicembre 1981 la carriera dell'ufficiale tocca l'apice con la nomina a vicecomandante dell'Arma, il massimo traguardo raggiungibile. Una bella soddisfazione che contribuisce a smorzare lo scandalo della P2 che vede coinvolto il fratello Romolo, già nell'occhio del ciclone ai tempi del dossieraggio del SIFAR, e che lambisce lo stesso Carlo Alberto, a lungo sospettato di aver almeno presentato domanda di affiliazione se non addirittura di far parte della congrega gelliana.

Per tutta l'Italia, Carlo Alberto Dalla Chiesa è un eroe. Di più: è l'uomo giusto per le missioni più difficili. Forse anche per questo motivo il governo gli chiede un sacrificio durissimo, abbandonare l'amata divisa per diventare prefetto di Palermo ovvero tornare per la terza volta in Sicilia. Il 30 aprile 1982 Carlo Alberto Dalla Chiesa arriva nel capoluogo regionale, proprio mentre la mafia ammazza una sua vecchia conoscenza, il politico Pio La Torre che sconta il peccato mortale (agli occhi di Cosa Nostra) di aver firmato un disegno di legge che dispone il sequestro dei beni dei mafiosi. Ci sono solo due cose che i mammasantissima temono: una è diventare improvvisamente poveri, l'altra è scontrarsi con chi non ha alcun timore reverenziale di loro. La Torre e Dalla Chiesa sono due obiettivi, il primo viene tolto di mezzo e per il secondo è tempo di finire nel mirino.

A Palermo Dalla Chiesa arriva con la seconda compagna di vita. Dopo aver perso per un infarto l'amata Dora nel 1978, il generale si risposa nell'estate del 1982 con la giovane Emanuela Setti Carraro, una crocerossina milanese di ottima famiglia che si è innamorata perdutamente di lui tanto da convincerlo a superare i trent'anni di differenza. Con Emanuela, Carlo Alberto si confida, si apre, le affida persino i documenti riservati: "Dovesse succedermi qualcosa - le dice - sai cosa fare, dove trovare le carte, a chi consegnarle". Emanuela è anche la sua unica certezza, a Palermo. Perché ci vuole poco, al vecchio generale, per capire che le promesse del ministro Rognoni e degli altri politici di poteri speciali per combattere la mafia sono solo parole senza costrutto: "Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì", si lamenta in una occasione. E scorrono lacrime sul viso del vecchio generale quando il 16 giugno 1982 la mafia ammazza tre giovani carabinieri sulla circonvallazione di Palermo mentre trasportano con un autista civile il boss pentito Alfio Ferlito, già braccio destro di Giuseppe Calderone dichiaratosi disposto a collaborare per vendicare la morte del suo amato capo. Sotto le lenti scure degli occhiali Dalla Chiesa piange e si domanda cosa sia diventata Palermo e forse anche quanto manca prima che i killer vengano a cercare pure lui. I nemici non gli mancano, alcuni li ha indicati persino lui in una intervista a Giorgio Bocca per "Repubblica": sono i cosiddetti Quattro Cavalieri dell'Apocalisse Mafiosa, i titolari delle imprese edilizie di Catania che col benestare della mafia vincente corleonese si sono lanciati alla conquista economica di Palermo. E' abbastanza per decretare la condanna a morte: "L'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa", detta al telefono del centralino dell'Arma di Palermo un anonimo picciotto. L'avvertimento è stato dato, non ce ne saranno altri.

La sera del 3 settembre 1982 una Autobianchi A112 beige esce dal cortile di Villa Whitaker, sede della prefettura palermitana. Al volante c'è Emanuela Setti Carraro cui non dispiace guidare per le vie della città; al suo fianco vi è il marito mentre a distanza segue un'Alfetta di servizio condotta dall'agente Domenico Russo, unico componente della scorta. La destinazione del piccolo convoglio è il quartiere di Mondello, dopo una giornata di lavoro il prefetto vuol portare la moglie a cena in un ristorante della rinomata spiaggia palermitana. Non vi arriveranno mai. Alle 21:15, in via Carini, un commando omicida mafioso entra in azione: due killer in moto affiancano l'Alfetta e sparano con un AK-47 all'agente Russo che, ferito gravemente, entrerà in coma e morirà dodici giorni dopo. Nello stesso istante, una BMW affianca l'A112 e con un altro Kalashnikov gli assassini investono di proiettili la coppia: con un moto di generosità, il generale si sporge sull'amata sposa, cerca di proteggerla ma trenta colpi trafiggono lui e la moglie uccidendoli sul colpo. La speranza dei palermitani onesti muore così, in strada, mentre mani anonime, forse con la scusa di cercare lenzuola per coprire i corpi martoriati, si introducono nella residenza prefettizia e sottraggono dalla cassaforte ogni documento presente.

L'indignazione popolare si misura al funerale che si celebra pochi giorni dopo in cattedrale. L'omelia dell'arcivescovo Pappalardo è vibrante, punta il dito sull'ignavia locale e nazionale, contro una classe dirigente troppo occupata a discutere a vuoto per accorgersi dei disastri che stanno accadendo: "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur" recita il prelato ricordando Tito Livio. Fuori dalla chiesa è una pioggia, ma di sputi, insulti, monetine all'indirizzo dei papaveri presenti. Gli unici applausi sono per Sandro Pertini, il vecchio presidente partigiano, che trattiene a stento la commozione, e per Rita Dalla Chiesa, figlia prediletta del generale, che rifiuta la corona di fiori offerta dal chiacchierato presidente regionale Mario D'Acquisto e vuole sul feretro del padre solo la bandiera tricolore, la sciabola e il berretto da generale. Occorreranno anni per conoscere mandanti ed esecutori di quella che diviene in breve nota come la strage di via Carini mentre, autentica beffa, i poteri speciali a lungo promessi e mai conferiti a Dalla Chiesa vengono immediatamente accordati ad Emanuele De Francesco, il nuovo prefetto. Una mossa forse tardiva che rende giustizia e merito al vecchio generale cui nemmeno le pallottole mafiose sono riuscite a staccare quegli alamari che tanto amava e cui aveva dedicato un'esistenza di impegno.

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