La Méhari verde

Gli eroi sono silenziosi. Gli eroi sorridono, ma spesso in maniera timida. Gli eroi non urlano: parlano, di solito a bassa voce. Gli eroi veri non hanno abiti sgargianti ma vestono in maniera piuttosto semplice. Gli eroi non guidano auto sportive o mezzi indistruttibili, accontentandosi di vetture modeste, pratiche, a volte persino eccentriche nella loro praticità. Come ad esempio una Citroën Méhari, magari di un colore particolare, verde. Era quella l'auto utilizzata da Giancarlo Siani per spostarsi tra Napoli e Torre Annunziata ed è proprio a bordo di quella "spiaggina" che trovò la morte, la sera del 23 settembre 1985.

Chi era Giancarlo Siani? Prima di tutto, era un giornalista. Di quelli precari, senza tutele, anche senza contratto regolare: suonerebbe buffo, se solo non fosse tragico e grottesco, pensare che la situazione lavorativa di Siani rappresentasse già negli anni '80 la realtà della stragrande maggioranza della professione giornalistica odierna. Giancarlo era un ragazzo che ad appena 19 anni d'età aveva abbracciato il lavoro del cronista per raccontare e combattere, penna in mano, la grande piaga della camorra. Nella Campania post terremoto il disagio giovanile, la mancanza di lavoro stabile, la violenza come metodo di risoluzione dei contrasti erano diventati terreno di coltura per la nuova manovalanza della criminalità organizzata che attingeva nelle strade soldati giovani e sempre nuovi per irrobustire le proprie fila di galoppini, spacciatori, taglieggiatori. E killer.

Era una Campania difficile da vivere, quella di inizio anni '80. Una regione povera, dominata dal malaffare che toccava con i suoi tentacoli le istituzioni pubbliche, come una piovra attirata dall'odore dei soldi, la preda ambita. E di soldi, in Campania, ne arrivavano molti in quel periodo: erano i fondi pubblici per la ricostruzione dopo il sisma dell'Irpinia, un business troppo ghiotto per non richiamare i predatori della camorra reduci dalla guerra fratricida tra la NCO di Cutolo e la Nuova Famiglia di Umberto Ammaturo. Giancarlo frequentava la redazione di Castellammare di Stabia del quotidiano "Il Mattino", con cui aveva avviato un rapporto di collaborazione, scrivendo di cronaca nera: in breve aveva capito i meccanismi criminali, il clientelismo dei clan, il sistema a monte degli appalti pilotati. Aveva anche colto, il giovane cronista, un aspetto fondamentale della criminalità locale che in fondo non aveva mai seppellito l'ascia di guerra. Perché se il confronto tra cutoliani e clan Ammaturo volgeva ormai al termine con la sconfitta della NCO, un nuovo conflitto già stava emergendo per stabilire il predominio del territorio.

Fulcro delle vicende criminali della zona era Valentino Gionta. Già venditore ambulante di pesce, Gionta si era affermato prima come contrabbandiere di sigarette e poi come trafficante di droga. Sfruttando i pescherecci, Gionta faceva arrivare sul litorale ingenti quantitativi di eroina che poi i suoi galoppini spacciavano nelle strade, devastando ulteriormente il già logoro tessuto sociale napoletano. La sua corsa all'espansione lo aveva portato a stringere alleanze con il clan Nuvoletta prima ancora di creare una propria famiglia criminale, aderendo con i soci alla mafia siciliana; più di tutto, l'attivismo di Gionta sul mercato degli stupefacenti aveva destato la preoccupazione di due potenti boss della zona, Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, che stante l'ostinazione di Gionta nel non voler condividere gli affari avevano deciso di decapitarne la struttura. La strage del circolo dei pescatori del 26 agosto 1984 era avvenuta proprio per colpire al cuore il clan di Valentino Gionta: un autobus rubato e camuffato da mezzo turistico era piombato in un caldo mezzogiorno estivo nella piazza di Torre Annunziata in cui aveva sede il locale frequentato da Gionta e dai suoi uomini, dal veicolo era sceso in fretta un commando di killer con giubbotti antiproiettile, fucili a pompa e Kalashnikov in pugno, che aveva fatto strage dei presenti. Sul terreno erano rimasti otto morti e sette feriti e lo stesso Gionta, pur scampato per un pelo al tentativo di assassinio, era in fuga al punto da dover chiedere protezione ai Nuvoletta. La nuova guerra tra clan rivali per l'egemonia del mercato degli stupefacenti rischiava di tramutare il lungomare in un campo di battaglia e Siani aveva iniziato ad interessarsi della vicenda, grazie anche ad alcuni confidenti a Palazzo di Giustizia e nell'Arma dei Carabinieri.

Mentre le indagini progredivano e il giovane cronista del "Mattino" scriveva, i tentativi di abbozzare un accordo di pace tra le fazioni in lotta non giungevano a soluzione. Pareva non esserci punto d'incontro tra Gionta e Bardellino, ormai decisi ad eliminarsi a vicenda per prendersi l'intero territorio. A fronte del rischio di trascinare di nuovo mezza regione in una guerra per le strade, con immaginabili conseguenze per gli affari criminali, il clan Nuvoletta aveva infine deciso di scaricare lo scomodo alleato favorendo una soffiata ai Carabinieri che erano riusciti ad arrestare Gionta proprio nei pressi di una tenuta degli stessi Nuvoletta. Siani aveva capito subito che la cattura del boss celava qualcosa di particolare, un patto inconfessabile tra famiglie per far cessare le ostilità, e aveva scritto un articolo di denuncia. Un pezzo che non era piaciuto ai Nuvoletta, già infastiditi da quel giornalista scomodo e ora additati dal resto del mondo criminale come "infami" per aver venduto il loro ex protetto alle forze dell'ordine. Quel giornalista aveva passato il segno, quel giornalista doveva morire.

La decisione venne presa in un summit a Ferragosto del 1985 ma nella stessa occasione si stabilì di attendere che l'obiettivo si allontanasse da Torre Annunziata per diminuire al massimo i sospetti. Siani intanto proseguiva le sue inchieste e parlava ai giovani, nelle scuole, spiegando l'importanza di non arrendersi allo spadroneggiare dei malviventi e alle prospettive nefaste di un futuro nebuloso. A inizio settembre il suo capocronista di Castellammare gli diede la grande notizia, al "Mattino" avevano deciso di puntare su di lui proponendogli un contratto diverso, da praticante, anticamera di un futura assunzione previa superamento dell'esame di Stato. A Giancarlo sembrò di toccare il cielo con un dito, senza ovviamente dimenticare i rischi del mestiere che aveva scelto. Forse anche per questo nel pomeriggio del 23 settembre 1985 telefonò ad Amato Lamberti, direttore di "Osservatorio sulla Camorra" e suo ex maestro di giornalismo: "Devo parlarti di alcune cose delicate", gli disse Giancarlo nell'occasione, senza dilungarsi in dettagli ma chiedendo un appuntamento. Poche ore dopo il giovane cronista era in auto, al volante di quella Méhari verde che tanto amava, e tornava a casa dal giornale in direzione dell'Arenella. Il tempo di parcheggiare in via Romaniello e la sua giovane vita era già terminata: due killer, sbucati alle spalle, gli erano piombati addosso sparandogli dieci pallottole in testa per poi fuggire a bordo di un'auto guidata da un complice. Era finita così l'esistenza del ragazzo che sognava il tesserino da professionista, che nel corso di una marcia per la pace a Roma si era fatto dipingere il simbolo universale di fratellanza dal fratello maggiore Paolo, che adorava la musica, il mare, scrivere. I tribunali condanneranno i Nuvoletta come mandanti ed anche i due assassini, anche se negli ultimi anni una nuova inchiesta è stata aperta dopo che sono emersi elementi ulteriori relativi alla vicenda dell'assassinio del giovane cronista. La sua Méhari verde è rimasta come un monumento vivente della voglia di vivere di un giovane che rifiutava la violenza di strada e combatteva la malavita a mani nude, con penna e taccuino, dimostrando un alto senso civico ed anche sprezzo del pericolo nel raccontare un microcosmo di frontiera per dare una nuova speranza a tanti suoi concittadini.

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