Un fungo nero sul mare

Nell'immaginario collettivo, la mushroom cloud o nube a fungo è strettamente legata ad un esplosione atomica. Il pirocumulo è formato da detriti, fumo e vapore acqueo condensato ma a dispetto delle credenze comuni non è necessaria una detonazione nucleare per formarlo: è sufficiente una qualsiasi esplosione che abbia una sufficiente potenza, tant'è vero che persino alcune eruzioni vulcaniche lo possono generare. Ovviamente anche ordigni di tipo convenzionale possono causare una nube a fungo, purché la detonazione abbia abbastanza potenza, purché riesca a bruciare le particelle d'ossigeno presenti nell'aria ed innalzando notevolmente la temperatura. Ed è proprio una spaventosa nube a fungo quella che si scorge nel mare al largo dell'isola dell'Asinara nel pomeriggio del 9 settembre 1943. E' uno spettacolo agghiacciante che stordisce qualunque osservatore e che scrive tristemente la parola conclusiva alla vita di decine di centinaia di uomini.

La nave da battaglia "Roma" è considerata ancora oggi la migliore realizzazione italiana nel campo delle costruzioni navali da guerra. Evoluzione del tipo "Littorio", è stata studiata per coniugare velocità, protezione e potenza di fuoco al fine di renderla una fortezza galleggiante capace di sparare proiettili dal peso di 8-9 quintali ciascuno sino ad oltre 40 chilometri di distanza. Consegnata dopo due anni di lavori alla Regia Marina, ne è divenuta subito l'ammiraglia, orgoglio della flotta da battaglia e gioiello sui mari per un'Arma molto attenta all'innovazione tecnologica - a bordo è presente il sistema difensivo dei cilindri assorbitori tipo "Pugliese" per la difesa subacquea oltre ad uno dei primi radar di fabbricazione nazionale. La sua linea, elegante ed inconfondibile, è ammirata da tutti i marinai.

Quando nell'estate del 1942 la "Roma" entra in squadra, venendo inquadrata nella IX Divisione Navi da Battaglia, è un periodo critico. Dopo due anni di guerra la Regia Marina lamenta perdite importanti: pur avendo preservato le corazzate (l'unica unità di linea in cantiere è la "Cavour", una vecchia corazzata ricostruita colpita nella notte di Taranto e da allora in riparazione), l'Italia fascista ha perso buona parte dei preziosi incrociatori pesanti e ha visto il naviglio leggero e di scorta assottigliarsi sempre più, senza che le già risicate risorse di materiali e la limitata capacità dei cantieri possano sopperire agli affondamenti. A complicare il quadro c'è la cronica carenza di carburante che sconsiglia uscite in mare da parte delle unità maggiori, assetate di nafta, tant'è vero che a dicembre la "Giulio Cesare" viene posta in riserva a Pola e trasformata provvisoriamente in nave addestramento e caserma galleggiante.

Le condizioni di belligeranza sono dunque sempre più difficili. Anche perché gli Alleati, ormai lanciati alla conquista dell'Africa Settentrionale, sono sempre più padroni dei mari e dei cieli. Le incursioni aeree ai danni dei porti inducono Supermarina, il comando supremo delle operazioni navali, ad abbandonare le basi più esposte come Palermo, Augusta, Taranto in favore della Maddalena, di Genova e della Spezia dove vengono convogliate le unità superstiti e dove si lavora anche alla realizzazione degli ultimi progetti, come quello della portaerei "Aquila". Dall'aprile del 1943 il comando della flotta è passato dall'ammiraglio Angelo Iachino al parigrado Carlo Bergamini: personalità forte, per alcuni colleghi addirittura irruento, Bergamini è noto per la richiesta fatta nel luglio 1940 al comandante in mare Campioni di poter uscire con le due "Littorio" ancora in fase di collaudo per sfidare gli inglesi. La sua carriera bellica l'ha visto quasi sempre al comando di divisioni di linea ma senza esperienza diretta di battaglia, mantenendo tuttavia un elevato livello della disciplina a bordo e pretendendo il massimo dai suoi uomini. Quando l'invasione alleata della Sicilia e la caduta del regime causano le prime diserzioni, Bergamini si lamenta ad alta voce con lo Stato Maggiore e col Ministero, chiedendo misure di contenimento e persino un ritorno alla censura, dando l'impressione a qualcuno di nutrire simpatie per il deposto dittatore. Ma Bergamini non è uno sciocco e quando l'ammiraglio Sansonetti gli sottopone un piano per attaccare con una sortita le squadre angloamericane ancorate in Algeria ed a Palermo, egli si dimostra assai dubbioso della validità di quello che sembra solo un tentativo di rompere la monotonia in base, una routine fatta da allarmi antiaerei ed esercitazioni. Quel che preoccupa maggiormente l'ammiraglio è il continuo movimento di truppe tedesche, specie attorno alla Spezia, intensificate dopo la caduta di Mussolini. L'impressione è che in un momento qualsiasi le forze germaniche possano tentare un colpo di mano come quello abbozzato ma non riuscito a Tolone nel novembre del 1942.

Il 7 settembre Bergamini è convocato a Roma da Raffaele De Courten, ammiraglio Capo di Stato Maggiore e Ministro della Marina. Nel colloquio, De Courten ordina lo sbarco di eventuali unità tedesche a bordo, la predisposizione di una ampia riserva di viveri e di munizioni, il rafforzamento della sorveglianza in rada e soprattutto di prepararsi a contrastare con tutte le navi a disposizione lo sbarco in continente degli Alleati. Pur consapevole della firma già avvenuta dell'armistizio, De Courten non fa il minimo accenno a Bergamini di quanto avvenuto a Cassibile quattro giorni prima ma lo invita a predisporre, nella peggiore delle ipotesi, l'autoaffondamento della flotta qualora gli eventi lo richiedessero. La mattina successiva Bergamini riparte per La Spezia e, una volta rientrato a bordo della sua ammiraglia, è raggiunto da una nuova telefonata di De Courten che lo invita a dirigere la squadra da battaglia alla Maddalena e poi dai sempre più insistenti chiacchiericci sulla fine imminente del conflitto. A sera i comunicati radio, prima di Eisenhower e poi di Badoglio, gettano lo scompiglio nella base. Bergamini è furibondo, non capisce perché sia stato tenuto all'oscuro e teme di dover consegnare le navi, una prospettiva che incontra il diniego di tutti gli uomini al suo comando. Su tutte le furie, l'ammiraglio telefona nuovamente a Roma, parla prima con Sansonetti e poi con De Courten, ribadisce di non avere alcuna intenzione di recarsi a Malta seguendo le clausole. "L'orientamento generale è per l'affondamento" ribadisce, lamentandosi di essere stato tenuto all'oscuro di tutto. Alla fine con una mossa diplomatica De Courten induce Bergamini a salpare verso La Maddalena dove la base è già attrezzata per ospitare grandi unità, facendogli intendere che il generale Ambrosio, architetto delle trattative armistiziali, proverà a mediare per convincere gli Alleati della maggiore sicurezza del porto sardo rispetto alla prospettiva di un lungo viaggio verso La Valletta.

Le trattative telefoniche che occupano buona parte della serata in realtà consumano tempo prezioso. Gli Alleati sanno bene che la flotta italiana non gode di copertura aerea e che i tedeschi faranno di tutto per requisire le navi o per affondarle: per questo l'ammiraglio Cunningham insiste perché la squadra di Bergamini prenda il mare prima di notte, al fine di eludere i ricognitori germanici. Ma solamente alle ore 3 Bergamini leva l'ancora, destinazione Maddalena, e questo errore gli costerà carissimo. Una volta ricongiuntasi con la divisione di incrociatori leggeri proveniente da Genova, la squadra punta dritta sulla Sardegna, convinta che secondo quanto relazionato nell'ultimo briefing la base della Maddalena accoglierà le navi che costituiranno la difesa dell'isola dove re Vittorio Emanuele III dovrebbe trasferire il governo. In realtà è tutta un'illusione: nella mattinata del 9 settembre, mentre i ricognitori con la svastica iniziano a seguire le mosse di Bergamini, le truppe naziste hanno già attaccato La Maddalena prendendone il pieno controllo. La squadra navale sta imboccando le Bocche di Bonifacio quando a bordo della "Roma" arriva una comunicazione di De Courten: invertire la rotta, La Maddalena è in mano nemica, dirigersi a Malta o in Algeria. Bergamini, che sino a quel momento non ha ottemperato ad una singola richiesta armistiziale (non ha issato il pennello nero né ha dipinto i cerchi neri richiesti sul ponte, invece ha disposto il gran pavese), capisce che si sta ficcando dritto in una trappola e ordina repentinamente una inversione di rotta a 180 gradi. Sono le ore 15 ed il cielo inizia a riempirsi di bimotori tedeschi da bombardamento tipo Dornier Do217: è la risposta di Hitler all'armistizio italiano, l'ordine ai piloti è di non consentire alla flotta italiana di unirsi a quella alleata mandando a picco quante più navi. A bordo degli apparecchi i tedeschi hanno imbarcato un'arma nuova, una bomba planante radioguidata: la chiamano Ruhstahl SD 1400, per gli Alleati diventerà la "Fritz X", un ordigno spaventoso che sfrutta la velocità di caduta (controllata tramite alettoni per definire la traiettoria sul bersaglio) per aumentare la capacità di penetrazione in relazione all'obiettivo.

Giunti in formazione sopra la flotta italiana, i Dornier iniziano ad inquadrare l'obiettivo. Il comandante della squadriglia, maggiore Joppe, è convinto che l'antiaerea delle navi abbia una gittata massima di 4mila metri, quindi mantiene gli aerei in quota a 5mila per garantire anche un buon controllo radio degli ordigni da sganciare. La prima SD 1400 sfiora la prua dell'incrociatore "Eugenio di Savoia" e non provoca danni; la seconda piove a poppa della corazzata "Italia" (la "Littorio" rinominata dopo il crollo del regime), causando con l'onda d'urto della propria esplosione il blocco temporaneo del timone principale. Ale 15:42 un ordigno colpisce la "Roma" nella zona dei cannoni antiaerei da 90mm senza però detonare all'impatto ma esplodendo sottacqua dopo aver attraversato lo scafo come se fosse burro. Il dramma si compie otto minuti dopo quando una seconda SD 1400 piove sul lato sinistro a prua, nello spazio tra la torre sopraelevata da 381mm ed il torrione corazzato di comando della nave: la bomba determina una falla con l'allagamento del locale caldaie lì vicino causando un arresto improvviso dell'attività motoria, poi la deflagrazione della testata coinvolge la santabarbara dei grossi calibri. L'esplosione immediatamente successiva è devastante, la torre d'artiglieria pesante 1500 tonnellate è catapultata in mare mentre il calore sviluppato è tale da fondere la struttura della plancia, condannando ad una morte orribile Bergamini, il suo Stato Maggiore ed il comandante della corazzata, Adone Del Cima. La vampata dell'esplosione e del successivo incendio è tale da essere avvistata nitidamente al pari del successivo fungo  che avvolge la nave. Nel giro di un quarto d'ora la "Roma", già ingovernabile, si spezza in due tronconi, si capovolge ed affonda portando con sé oltre 1300 vite umane; i sopravvissuti sono solamente 600, moltissimi ustionati o in gravi condizioni, raccolti dalle navi di scorta. Quanto ai tedeschi, prima di ritirarsi sganciano un'altra SD 1400 che colpisce la "Italia" ma causando solo un allagamento che ne rallenta la velocità senza però impedire la navigazione. 

E' un vero disastro per la Regia Marina. Mentre proseguono le operazioni di salvataggio dei naufraghi, caricati dall'incrociatore "Attilio Regolo" e da alcuni caccia e torpediniere, il comando è assunto dall'ammiraglio Romeo Oliva, l'ufficiale più anziano che ordina alle navi di innalzare il pennello nero e di disegnare sulla tolda i cerchi armistiziali. La missione Maddalena è miseramente fallita, ormai non resta altro da fare che condurre ciò che resta della flotta a Malta. Il "Regolo" e le altre unità che hanno raccolto i feriti preferiscono far rotta sulle Baleari per consentire ai sopravvissuti di usufruire di adeguate cure mediche, anche a costo di far internare le navi dagli spagnoli o di autoaffondarle. Alla Valletta la squadra italiana si ricongiunge con la divisione dell'ammiraglio Da Zara che con le vecchie "Doria" e "Duilio" è salpato da Taranto; qualche tempo dopo arriva anche la "Giulio Cesare", riarmata in tutta fretta e scappata da Pola, che ha dovuto fronteggiare lungo la rotta persino un ammutinamento a bordo. A Malta i marinai italiani ricevono gli onori militari dagli inglesi contro cui hanno combattuto nei precedenti tre anni, successivamente devono abituarsi ad una vita di sostanziale inattività. La cobelligeranza non prevede operazioni di rilievo e le navi della Regia Marina trascorreranno il resto della guerra in internamento o in trasferimenti di vario tipo. Fino all'ultimo ufficiali e comuni sperano che quanto loro promesso, vale a dire che la flotta mai verrà consegnata agli Alleati, possa essere realtà. Verranno delusi: in base ai trattati di pace, Francia, Unione Sovietica, Jugoslavia e Grecia reclameranno la loro parte di naviglio mentre Gran Bretagna e USA preferiranno rinunciare alle proprie quote a patto di veder demolite le moderne "Italia" e "Vittorio Veneto". Tuttavia alle due poderose navi in segno di sommo spregio saranno tagliate prima della rottamazione le volate dei cannoni con la fiamma ossidrica, quasi una riproposizione del terribile urlo "Vae victis!" ("Guai ai vinti!") che il gallo Brenno rivolse agli antichi Romani nel 390 a.C.: un sospetto confermato anche da Benedetto Croce che, commentando il trattato, ne denuncia invano le clausole richiamando il carattere tiranneggiante della legge di guerra, che vede i vincitori disporre a piacimento dei venti.

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